di Vincenzo Sfirro
Chissà cosa avrebbe pensato Giovan Battista Marino trovandosi a leggere un’opera di questo genere, lui che, dotato di grande sensibilità poetica, faceva cadere i fiori ai piedi delle divinità e delle eroine femminili protagoniste dei suoi componimenti.
Prima ancora che venissero calpestati, infatti, alcuni fiori, descritti dal Marino come se fossero degli esseri animati, alla vista della pianta nuda e immortale di donne così belle, svenivano di estasi. Si pensi a Europa (G.B. Marino, La Sampogna, idillo 4) di cui “sotto il bel pié ridea / tutto il popol de’ fiori”, mentre “la gentil mammoletta, / dal caro peso oppressa / di quelle vaghe piante, / d’amoroso pallor tinta la guancia, / tramortì di dolcezza in braccio all’erba”; oppure alla rosa (G.B. Marino, Adone, 3, 66-67) che gioisce perché calpestata dal piede di Venere e macchiata del suo sangue divino, per la ferita procuratale dalle sue spine. Dopo questo evento però, il fiore dell’amore, che prima era chiaro, restò per sempre colorato di un rosso intenso, il colore del sangue della Dea.
Molti dei fiori sopra citati, però, come il Marino, non si accontentavano soltanto delle estremità e, cercando di svettare più degli altri, facevano a gara per essere raccolti dalla mano di Europa, che li conservava in grembo e se ne adornava i capelli.
Così persino Omero, (Iliade, XIV, 166-186) descrivendo la vestizione di Era, che si orna di tutto punto nel tentativo di sedurre Zeus, farlo addormentare, scendere in battaglia sotto false spoglie e volgere gli eventi a favore degli Achei, non disdegna di menzionare anche le estremità della dea, che ai bei piedi lega dei bei sandali.
I poeti nelle loro descrizioni sembrano voler dire che, almeno nel caso di divinità o di eroine, ci si trova di fronte a una bellezza così grande che persino quelle parti del corpo meno nobili sono comunque degne di attenzione. Il contesto è quello di una bellezza totale, che comprende ogni parte del corpo, ma il modello resta sempre quello di una donna vera, di solito colei di cui questi artisti si innamoravano e di cui amavano tutto.
È un enigma che io non riuscirò mai a risolvere: perché mai desidero il Tale? Perché lo desidero persistentemente, languidamente? È tutto lui che desidero (una sagoma, una forma, un’aria)? O è solamente una parte di quel corpo? E, in tal caso, che cos’è che, in quel corpo amato, ha per me il valore di feticcio? Quale porzione, per quanto esigua sia, quale sua caratteristica? Il taglio di un’unghia, un dente leggermente rotto di sbieco, una ciocca di capelli, un certo modo di muovere le dita mentre parla, mentre fuma? Di tutte queste caratteristiche del corpo, ho voglia di dire che sono adorabili. (R. Bartes, Frammenti di un discorso amoroso, Torino, 2001).
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