Ayra rompe gli schemi con un brano che è molto più di un singolo: è una dichiarazione di intenti, un’esperienza sensoriale e narrativa. In questa intervista racconta la genesi del suo sound, l’inclusione nel videoclip e la volontà di lanciare un messaggio forte contro la superficialità dell’epoca digitale.

Ayra, quanto del tuo background accademico e tecnico ritroviamo in “Built To Survive”?
Direi che la mia preparazione accademica è fondamentale e credo che in “Built To Survive” questo sia la cosa più lampante. Non è stato affatto semplice riuscire a inserire chitarre così aggressive e corpose in un mix dove dovevano coesistere con synth distinti, riuscendo comunque a “bucare” quel muro di suono mantenendo il giusto punch. Inoltre, anche dal punto di vista vocale, è forse il mio brano più audace finora: ci sono salti sugli acuti che, sebbene a un primo ascolto possano non sembrare estremi, incutono un certo timore se non si è in perfetta forma vocale. La tecnica, in questo caso, è stata il pilastro su cui ho costruito l’intera esecuzione.
In che modo la tua formazione come programmatore C++ specializzato nell’audio influenza il tuo sound design?
Sebbene l’impatto diretto della programmazione su questo specifico brano possa sembrare marginale, la mia formazione generale come sound designer ne beneficia enormemente. Non mi limito a “girare manopole” sui synth sperando in un risultato simpatico: grazie allo studio del codice e del DSP (Digital Signal Processing), capisco cosa succede “dietro le quinte” quando si programma un effetto o un sintetizzatore. Quando guardo l’interfaccia grafica di un plugin, intuisco immediatamente la logica con cui lo sviluppatore ha voluto intendere quel segnale. Questo non solo mi fa risparmiare moltissimo tempo, ma mi permette di ottenere esattamente il suono che ho in testa e genera nuove idee creative con maggiore facilità, che poi riverso in brani complessi come questo.
Hai collaborato con figure iconiche come Ian Paice: cosa ti hanno lasciato queste esperienze?
A livello professionale mi hanno lasciato moltissimo, ma il ricordo più vivido rimane la carica e il puro divertimento sul palco. Per me ogni live va affrontato come se fosse l’ultimo, è un po’ la mia ragione di vita, ma non voglio mai perdere di vista il fatto che stare lassù deve farmi stare bene. Con leggende come Ian Paice ho vissuto un divertimento unico. Porterò sempre con me l’esempio di questi giganti che non devono più dimostrare nulla a nessuno: si approcciano a noi colleghi o artisti emergenti in modo genuino, semplice e profondamente rispettoso. Loro sanno bene cosa c’è dietro, conoscono la fatica che serve perché l’hanno vissuta in primis. È un approccio maturo e di una professionalità rara, specialmente in un’epoca in cui spesso ci si confronta con musicisti che non possiedono la stessa consapevolezza.
Cosa significa, per te, avere pieno controllo creativo su ogni dettaglio del progetto Ayra?
Mi piace rapportarmi ai miei brani esattamente come farebbe un compositore classico. Voglio dare sfogo a ogni mio capriccio creativo, mantenendo però un’attenzione assoluta a ciò che accade in partitura: gli incastri, i contrappunti, le melodie. Non amo che un brano sia il prodotto di varie menti che litigano per imporre la propria visione, rischiando di creare un “Arlecchino” sonoro o, peggio, di castrarsi artisticamente a vicenda. Preferisco lavorare in questo modo, curando ogni dettaglio personalmente. Devo dire che anche i miei collaboratori nutrono un profondo rispetto per questo mio processo creativo: si adeguano con professionalità alla partitura che fornisco loro per i live, e questa fiducia mi riempie di onore e orgoglio.


