Con parole intense e senza sconti, Claudio Di Giammarco ci conduce nel suo mondo fatto di partenze dolorose e approdi cercati. Un libro che parla di perdita, rinascita e della forza silenziosa che ci spinge avanti, anche quando tutto ci dice di fermarci.

Claudio, è un piacere averti qui. “Caracas – Cuneo One Way” è molto più che il racconto di un trasferimento: quali insegnamenti può trarre il pubblico adulto, soprattutto chi vive un cambiamento radicale?

Che crescere non è lineare. Si cade, si sbaglia, si torna indietro, si ricomincia. E che spesso le scelte giuste non sembrano tali nel momento in cui le fai.

Qual è oggi il tuo legame con Venezuela, Piemonte e Abruzzo — le tre realtà che hanno segnato la tua storia personale?

Il Venezuela è origine e ferita.

È il luogo in cui sono nato, dove si è formata la mia identità, il mio modo di sentire, di parlare, di vivere le relazioni. Ma è anche una ferita aperta: un Paese che mi ha dato tutto e poi mi ha tolto la possibilità di restare. Caracas non è un ricordo nostalgico, è qualcosa che mi porto addosso ogni giorno.

Il Piemonte è sopravvivenza e formazione.

È il posto dove ho imparato a cavarmela davvero. Dove ho dovuto ricominciare da zero, lavorare in silenzio, ridimensionare sogni e aspettative. Il Piemonte mi ha insegnato la disciplina, la fatica, il valore della dignità quando non hai più niente da dimostrare.

L’Abruzzo è approdo, non rifugio.

Non ci sono arrivato per scappare, ma per scegliere. È il primo luogo in cui mi sono sentito abbastanza stabile da fermarmi, da costruire, da pensare al futuro. Non è la fine del viaggio, ma il punto in cui ho deciso di restare in piedi.

Se dovessi descrivere il “te” protagonista del libro con tre parole, quali sarebbero e perché?

Inquieto.
Perché il protagonista non è mai fermo davvero. Anche quando sembra stabile, dentro è in movimento. Cambia città, lavori, relazioni, ma soprattutto cambia pelle. L’inquietudine è il motore di tutte le scelte, nel bene e nel male.

Fragile.
Non perché sia debole, ma perché sente tutto. Le perdite, le separazioni, le amicizie, la nostalgia, la colpa. La fragilità nel libro non viene nascosta: è esposta, raccontata, a volte persino lasciata sanguinare.

Testardo.
Perché nonostante gli errori, le cadute e le deviazioni, va sempre avanti. Sbaglia spesso, a volte ripete gli stessi errori, ma non smette mai di rialzarsi e reinventarsi. È una testardaggine che non ha nulla di eroico, ma è l’unica forma di resistenza che conosce.

Secondo te, perché si ha così paura di lasciare tutto e ripartire quando la vita lo richiede?

Fa paura perché ripartire vuol dire perdere identità.

Vuol dire smettere di essere “quello che eri” prima di sapere chi diventerai.
Significa rinunciare alle certezze, allo sguardo degli altri, ai ruoli che ti definivano.

Si ha paura perché ripartire ti mette davanti al fallimento possibile, all’idea di aver sbagliato strada.
E perché nessuno ti garantisce che, dall’altra parte, starai meglio.

Nel libro è chiaro: non si riparte per coraggio, ma quando restare fa più male che andarsene.
E anche allora, la paura non passa. Si impara solo a camminarci insieme.

Marco Vittoria

Sono Marco Vittoria, futuro architetto con l’hobby della scrittura. Appassionatissimo di musica, cinema ed arte, con una predilezione verso tutto ciò che riguarda gli anni ottanta e la pop art.

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Di Marco Vittoria

Sono Marco Vittoria, futuro architetto con l’hobby della scrittura. Appassionatissimo di musica, cinema ed arte, con una predilezione verso tutto ciò che riguarda gli anni ottanta e la pop art.