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VINCENT VAN GOGH

di Alessandro Antoony Maritato (*)

Il binomio arte e squilibrio mentale mai fu più chiaro e universalmente riconosciuto come nel suo caso. Ogni particolare in van Gogh ci parla di un’inquietudine disperata e patalogica – la sua vita compulsiva di creativo “dannato” è un inno al cliché dell’artista e lo rende affascinante, forse ancora più talentuoso. Senza dubbio molto triste. Vincent van Gogh nasce a Groot Zundert, in Olanda, il 30 marzo del 1853 in una famiglia numerosa in cui il pater familias, Theodorus, è un pastore protestante – sei fratelli in tutto, in casa, fra cui Theo, di quattro anni più giovane e, una volta adulto, l’amico più caro e devoto del pittore. E’ precoce il suo interesse per i colori: l’infanzia non è allegra, l’ambiente famigliare è spesso ansiogeno e in un certo senso affollato ed è solo crescendo e potendo frequentare il collegio, che Vincent può dedicarsi alla sua passione per i pennelli.

Dal 1869 “va a bottega” da uno zio all’Aja, realizzando le sue prime opere e girovagando tra Londra e Parigi finchè non si trasferisce in Inghilterra, in un paesino in cui si dedica all’insegnamento, in condizioni economiche precarie. Inizia a riflettere su un’ipotetica e ovvia (visto l’esempio paterno) vocazione religiosa, ma quando torna in visita dai genitori, già si vedono i primi segni di sofferenza: il ragazzo non sta bene, è trascurato, trasandato, per nulla sereno. Nessuna delle occupazioni che gli vengono trovate pare adatta a lui: ama leggere, continuamente, e ovviamente disegnare, ma ha forti sbalzi d’umore ed è spesso depresso. Si ritrova predicatore laico presso una comunità di minatori, che diventeranno anche i soggetti di molti schizzi e gli faranno conoscere una dimensione umana dove il dolore e la fatica colmano l’esistere tutto. E’ Theo a indirizzarlo: lo sprona a proseguire nello studio artistico e così il poco promettente Vincent si trasferisce a Bruxelles e inizia a frequentare gli ambienti bohemienne dell’epoca, anche se le sue intemperanze non gli consentono di crearsi un giro di amicizie. Si brucia la mano sinistra di fronte a una delusione sentimentale, iniziando la sequela di atti autolesionistici che esegue come fossero esse stessi penosi impeti creativi. Si innamora di una prostituta, una malattia venerea inizia a minare una salute già fragile, l’ennesimo ritorno a casa è un ulteriore fallimento: nel nido domestico, dal 1883 al 1885 compone quasi duecento tele, non ottenendo di che mantenersi e talvolta bruciando persino alcuni suoi lavori. Il rientro a Parigi significa l’inizio dell’amicizia con uno dei pittori del Petit-Boulevard: Gauguin, che in seguito andrà a vivere con lui nella sua casa gialla di Arles. Dopo una lite tra i due grandi, van Gogh si taglia la parte di un orecchio che porta a un bordello per donarla a un’amica. E’ l’inizio dei lunghi ricoveri psichiatrici, dei quadri dove le pennellate di giallo sono sempre più violente, uno spasmodico desiderio di vivere. Eppure è proprio lui a uccidersi, morendo in seguito a un colpo di pistola il 29 luglio 1890. L’adorato e premuroso fratello Theo che sempre lo aveva sostenuto, lo seguirà un anno dopo, spegnendosi in un manicomio per quelli che sembra fossero gli effetti allucinatori della sifilide.  Di questa eccezionale e solitaria parabola umana, certe volte non importa, quale sia il nome di una malattia o gli eventi sottostanti, per spiegare l’arte. Dovrebbe bastarci e raccontarsi da sè. Ma le supposizioni circa lo stato mentale di van Gogh sono ancora oggi floridissime e non molto varie – senza potendo fra l’altro raggiungere alcuna certezza clinica, a posteriori. Si possono solo analizzare le tre ipotesi-base sulle condizioni psichiatriche nascoste nell’impeto delle sue creazioni. Da un punto di vista biologico si è parlato di epilessia e di effetti secondari della sifilide (come per il fratello Theo). Per quanto nel sapere comune le scariche prolungate e anomale del tronco cerebrale o della corteccia che caratterizzano i disturbi epilettici siano caratterizzate da convulsioni spaventose, in realtà si tratta di una malattia ben più complessa, multiforme ed eterogenea. Le sue manifestazioni meno note, le sue diverse forme possono realmente trarre in inganno. Le crisi parziali sono caratterizzate dal coinvolgimento di una parte cerebrale ben precisa e possono essere semplici o complesse. Le prime non comportano una perdita di coscienza, ma provocano sintomi vari che coinvolgono anche l’aspetto psichico: si possono avere percezioni sensoriali inusuali o non realistiche in quel dato momento (avvertire un odore, una melodia nell’aria che invece è muta), sintomi neurovegetativi di diversa entità, alterazioni motorie in veste di “scosse” e infine una distorsione dell’immagazzinamento dei dati di realtà. Si hanno esplosioni di rabbia (di cui van Gogh soffriva), paura, perdita del senso del tempo e, soprattutto, fenomeni allucinatori. Addirittura, togliendo poesia alla storia, qualcuno avanza l’idea che la forza dirompente del giallo utilizzato da Vincent nelle sue opere dipenda dall’incapacità del suo cervello di ‘dosare’ e avvertire ‘normalmente’ quel colore (a causa dell’uso della digitale per smorzare gli episodi epilettiformi) – moltissime in realtà sono le personalità famose che soffrivano, in varia misura di questa malattia. Fra i nomi: Socrate, Pietro il Grande, Frederick Handel, Nietzsche, Moliére, Flaubert, Byron, Torquato Tasso, Dostoevskij, Dickens e il pittore Ligabue – l’arte è debitrice verso un male terribile. L’alternativa – altrettanto penosa – è la sifilide. Nota anche come mal francese o lue, causata dal batterio Treponema pallidum, la sua evoluzione si contraddistingue in tre fasi, la terza delle quali si può sviluppare anche dopo più di venti anni dal contagio ed è denotata dal manifestarsi dei danni subiti dai vari organi (tutti sono a rischio), in particolar modo il midollo spinale (paralisi) e il cervello, e si può verificare una neurosiflide parenchimatosa (in pazienti in genere attorno ai quarantacinque anni) in cui vi è un deterioramente comportamentale e cognitivo notevole. Si possono constatare perdita di memoria, insonnia, sbalzi emotivi e depressioni, con anche una sempre minor cura degli aspetti igienici e relazionali del soggetto. Inoltre, la stessa sifilide produce in alcuni casi episodi tipici dell’epilessia, lasciando quindi le due possibilità entrambi plausibili. Recentemenre si è pensato di attribuire a questa causa organica persino le manifestazioni psichiatriche di Hitler. Più usuale è invece imputare i tratti di van Gogh alla schizofrenia, che è stata anche la diagnosi ufficiale dei suoi ingressi in ospedale (anche se era la diagnosi ufficiale di pressocché tutti i ricoveri manicomiali dell’epoca!). Come noto, la schizofrenia ha sintomi positivi (deliri, allucinazioni, comportamenti bizzarri e stranezza del pensiero) e negativi (ritiro sociale, povertà cognitiva ed emozionale, appiattimento affettivo) che possono trovarsi entrambi nell’anamnesi di Vincent, un uomo che ondeggia tra un desiderio di ascetica estesi e un’inflessibilità morale che non lascia attenuanti. Da un punto di vista psicodinamico, nelle speculazioni si è aggiunto chi ha parlato di una non elaborazione di un trauma infantile legato all’essere un “figlio sostitutivo”: van Gogh era nato secondo, ma il primogenito era morto, con enorme disperazione dei genitori, e questo nuovo venuto ne aveva assunto il nome e in un certo senso l’identità (nei suoi ricordi, la piccola tomba, in giardino). E’ un’interpretazione tutto sommato scontata e riduttiva, ma che comunque tiene conto dell’ambiente oppressivo e iperprotettivo del clan famigliare e che fa orientare verso un finale concatenarsi di fattori nello spiegare van Gogh.  Basta osservare una delle sue ultime opere: “Campo di grano con corvi” (1890). Le pennellate hanno il suo solito inconfondibile vigore quasi ansioso, nel buio blu della notte, una strada distorta che quasi richiama un percorso sofferente e di sofferenza. Una strada che pare andare essa stessa di fretta, veloce, verso la fine, in un campo di grano del suo giallo. Il suo giallo. Un giallo squillante malgrado l’oscurità, un giallo impossibile, mobile, pressocché ventoso, fino al punto di fuga – così dinamico e squassato, che persino i corvi, accennati, inquietanti, paiono fermi, quasi appesi al cielo e non si capisce se stiano venendo addosso o si stiano allontanando. Ormai nel pieno delle proprie ombre, con gli ultimi giorni della sua storia, emerge qui – qui, un esempio tra tanti – la potenza struggente che era in lui (un anelito a qualcosa che gli era precluso?), l’energia instancabile e cruda che lo perseguitava, il terrore e la paura della consapevolezza d’avere un proprio incubo (quei corvi, tanti, inevitabili, di fronte). Un mondo plasmato male dai sensi, in cui tentava di orientarsi senza riuscirsi: una selva di immagini i cui profili sono modificati, in cui per sentirsi e percepirsi sè e in-sè serve il dolore, il taglio, l’amputazione e l’autolesionismo (forse lo stesso che Frida Kahlo metteva nei suoi quadri e che riproduceva lo scempio chirurgico del suo corpo). Bruciarsi, mozzare, incidere la carne per dare consistenza all’esserci e al dolore, magari.  Alla fine non importa poi molto, probabilmente, del perchè di ogni cosa. Di ciò che, nel passato o nell’organismo di un uomo, lo porta a essere ciò che diventa e ciò che è in grado di fare. Si stempera il bisogno di sapere, resta il risultato. L’arte (un’arpia?) spesso non si avvicina a chi è felice – lo disdegna, non si fa toccare nè conoscere, non perdona la serenità. Serve di solito l’abisso – un luogo poco chiaro, comunque. Ed ecco dunque che ci rimane un’esistenza sofferta e infelice. E capolavori – molti, davvero molti. Ci racconta van Gogh, coi suoi colori a olio, il movimento estenuante che avevo dentro e la disperazione e ciò che si vuole. Ma poi eccolo, quel giallo. Un giallo luminosissimo, più ancora di quello cantato da Montale. Un giallo che non perdona, non chiede, che invade e conquista.
Che fosse per l’epilessia o altro non conta.

(*) Pittore iscritto al GAI

CON L’AIUTO DEL COMPUTER SVELATA UNA SCRITTURA A CARATTERI CUNEIFORMI DI 3000 ANNI FA !

di Mario Codella

E’ un dato scientifico confermato dal “Progetto Genoma” (lo studio completo del nostro patrimonio genetico) che nel nostro DNA ci sono non solo i comandi per la nostra vita, ma anche le tracce del nostro passato, dalle origini dell’umanità. La storia quindi non è solo sete di conoscenza “intellettuale”, ma anche una necessità pratica per penetrare sempre di più il grande mistero della composizione e quindi della funzionalità del nostro corpo.
Ben venga allora lo strepitoso sviluppo della tecnologia che sta assumendo un ruolo fondamentale di supporto per la conoscenza del presente, certo, ma anche delle nostre origini.
La storia che conosciamo è solo una parte di quello che è veramente accaduto; quello che sappiamo è sempre stato “interpretato” dai governi, dalle religioni, dalle convenienze.

Fino ad ora non sapevamo di civiltà scomparse, non sapevamo che la storia dell’umanità è sempre stata caratterizzata da continui “alti e bassi” di capacità intellettiva che non sono spiegati molto bene dalla semplice teoria dell’evoluzione. Tutto ciò che permette un sapere storico maggiore non può che destare grande interesse, come la notizia che tre ricercatori ( Regina Barzilay. Ben Snyder dell’MIT e Kevin Knight della University of Southern California) hanno sviluppato un programma per il computer capace di comprendere e tradurre addirittura un linguaggio morto semitico chiamato ugaritico composto da caratteri cuneiformi di ben 3000 anni fa!
I tre scienziati hanno dichiarato che questo programma è destinato solo a migliorare e che sarà preziosissimo per gli archeologi per decifrare alcuni linguaggi ancora resistenti ad ogni interpretazione.
La Barzilay aggiunge: “ogni linguaggio ha le sue sfide. Probabilmente una decifrazione di successo richiederà di aggiustare il metodo in base alla peculiarità del linguaggio. La decifrazione dell’ugaritico ha comportato anni di studio ed è stata aiutata da alcune fortuite coincidenze, come la scoperta di un’ascia con sopra incisa la parola -ascia- in ugaritico”.
Più che comprensibile è però lo scetticismo di Andrew Robinson, autore di “Lost Languages” nel quale scrisse: “la decifrazione archeologica richiede logica di sintesi ed intuizione che i computer non possiedono e che probabilmente non potranno mai avere”

Una considerazione: speriamo che tutto ciò che verrà tradotto dei tanti linguaggi del passato sarà reso pubblico a tutti.

STEATOSI EPATICA NON ALCOLICA – “FEGATO GRASSO”

di Silvia Codella (*)

<Breve e semplice schema volto a spiegare questa patologia, sempre più diffusa nel nostro Paese, a chi non la conosce e a chi scopre di esserne affetto e non sa cosa fare>

 
E’ una delle più comuni problematiche che interessano il fegato nei paesi sviluppati, oltre il 15-20 %  della popolazione d’Europa e d’America risulta colpito da questo disturbo che ha fortissimi collegamenti con l’alimentazione ed il metabolismo; infatti si osserva soprattutto in individui in sovrappeso, obesi o affetti da diabete di tipo II (“mellito”), dislipidemie e altri disordini metabolici. Non bisogna dimenticare che il fegato è un organo centrale nel metabolismo lipidico sia per la sintesi di colesterolo che di trigliceridi.

 

DEFINIZIONE: La steatosi epatica non alcolica si presenta come un eccessivo accumulo (>5%) di vescicole contenenti grassi ( per lo più trigliceridi ) all’interno delle cellule del fegato; a seconda della grandezza di tali “gocce di grasso” si parla di steatosi MICROVESCICOLARE e steatosi MACROVESCICOLARE, anche se nella maggior parte dei casi sono miste (con accumuli di diverse dimensioni)

 

CAUSE: Si distingue dalla steatosi epatica alcolica in quanto le cause (ancora oggi non totalmente chiarite) non sono legate all’abuso di alcool, quanto a:

–          eccesso della quantità di lipidi che arrivano con la dieta alimentare

–          aumento della attività di sintesi o riduzione della capacità di eliminazione di grassi da parte del fegato

Insomma le cause possono essere molteplici ed è bene fare una distinzione tra le quelle che determinano le due forme di accumulo:

  

      MACROVESCICOLARE                                                        MICROVESCICOLARE

 

Nutrizione (deficit proteico e vitaminico, obesità,

                    nutrizione parenterale(per via venosa))                  Farmaci (tetracicline,cortisonici)

Epatopatie (Bypass digiuno-ileale,                                              Fegato grasso acuto in gravidanza

                    Gastroplastica, Malattia di Wilson)                          Malattia di Reye (pediatrica)

Disordini Metabolici ( Diabete di tipo 2,

                    dislipidemie e ipotiroidismo non

                    trattati )

Farmaci (Cortisonici, Amiodarone, Estrogeni

                Tamoxifene)

 

 

SINTOMATOLOGIA: E’ per lo più asintomatica, solo nelle fasi più avanzate si può riscontrare dolorabilità  e senso si pesantezza nel quadrante dell’addome in alto a destra.

  

DIAGNOSI: Alla palpazione e all’esame ecografico si verifica l’aumento volumetrico del fegato, spesso ma non sempre accompagnato da un aumento di alcuni parametri alle indagini ematiche (AST,ALT,ALP,GGT, livelli di glucosio, colesterolo, trigliceridi). Bisogna escludere possano esserci epatite virale, epatite autoimmune, emocromatosi. Ma tra tutte le indagini possibili quella che permette di fare diagnosi con sicurezza, nonché distinguere le due forme macro e micro vescicolare, è la biopsia epatica.

 

PROGNOSI: Per lo più benigna, si tratta di una condizione spesso reversibile; ma se non trattata anzi con amplificazione delle cause scatenanti, si può sviluppare un fenomeno infiammatorio con eventi necrotici dando luogo al quadro di STEATOEPATITE NON ALCOLICA che può evolvere verso la fibrosi e quindi la cirrosi epatica.

  

CURA: Sono ancora in via di sperimentazione diversi farmaci ma, considerando anche il coinvolgimento di alcuni di questi nella eziopatogenesi della malattia, al momento l’unica ed efficiente terapia è l’eliminazione delle cause che sostengono la steatosi. Importantissimi sono l’attività fisica ed una stretta e corretta dieta alimentare almeno per qualche mese, al fine di ridurre il peso e quindi diminuire la massa grassa.

 

    Qual è la dieta alimentare indicata?

 

Sicuramente la dieta alimentare mediterranea ( http://www.ventonuovo.eu/index.php?option=com_content&view=article&id=697 )

Di seguito ricordiamo quali sono gli alimenti da prediligere e quali sono da evitare :

 

In generale:

–          ELIMINARE GLI ALCOLICI

–          LIMITARE L’INTRODUZIONE DI LIPIDI

 

VANNO BENE :       CEREALI

                             VERDURA E FRUTTA (legumi e frutta fresca soprattutto)

                             PESCE A VOLONTA’ (principalmente pesce azzurro)

                             CARNE BIANCA (pollo, tacchino, vitello, coniglio, maiale)

                             PATATE (al cartoccio, bollite, al forno)

                             LATTE SCREMATO

                             ALBUME D’UOVO

                             BIBITE DIETETICHE, CAFFE’, THE’

                             CONDIRE CON LIMONE, PEPE, AROMI

 

BISOGNA MODERARSI O ELIMINARE (per qualche mese per poi seguire le linee guida della dieta mediterranea) : 
                                    ECCESSO DI SALE 

                                    FRITTI

                                    CARNE ROSSA (prosciutto crudo, cotto e salumi in generale, pancetta,  

                                    anatra)      

                                   OLIO DI OLIVA IN ECCESSO,MAIS,GIRASOLE,BURRO,LARDO

                                   LATTE INTERO E PARZIALMENTE SCREMATO

                                   UOVO INTERO

                                   MAIONESE E CREME GRASSE

                                   DOLCI E CARAMELLE

                            

Insomma, al di là di questa specifica lesione epatica, oggi si sente parlare sempre di più di malattie legate ad una scorretta alimentazione, con ampie fasce della popolazione obese, dai bambini agli adulti; bisogna dunque fare molta attenzione, principalmente nei primi anni di vita e nel corso dello sviluppo, evitare quegli eccessi tipici della società consumistica che vanno dalle “merendine” dei bambini agli aperitivi dei ragazzi fino ad arrivare all’eccesso di alcool nonché di alimenti fortemente calorici. Molta attenzione devono farla i genitori, sono loro che hanno la responsabilità, il dovere di tenere fuori i figli dalla rete dei media, della pubblicità e del consumismo!

(*) Studentessa di Medicina e Chirurgia dell’Università La Sapienza di Roma

IL CALENDARIO 2010/2011

di Andrea Pelagatti (*)

Il campionato 2010/2011 parte con una giornata soft. L’Inter, campione in carica, parte da Bologna, mentre il Milan ospita il Lecce. La Juve va a Bari, mentre la Fiorentina ospita il Napoli.
Roma-Cesena e Sampdoria-Lazio alla prima giornata. Palermo-Cagliari. Bari-Juventus, Chievo-Catania, Milan-Lecce.

SECONDA GIORNATA – Le seconda giornata: Brescia-Palermo, Cagliari-Roma; Catania-Parma; Cesena-Milan; Genoa-Chievo; Inter-Udinese; Juventus-Sampdoria; Lazio-Bologna; Lecce-Fiorentina

TERZA GIORNATA – Bari-Cagliari; Chievo-Brescia; Cesena-Lecce; Milan-Catania; Parma-Genoa; Roma-Bologna; Sampdoria-Napoli; Udienese-Juventus; Palermo-Inter; Fiorentina-Lazio

QUARTA GIORNATA – Brescia-Roma; Cagliari-Sampdoria; Catania-Cesena; Genoa-Fiorentina; Inter-Bari; Juventus-Palermo; Lazio-Milan; Lecce-Parma; Bologna-Udinese; Napoli-Chievo

ROMA-INTER ALLA QUINTA – La sfida tra la prima e la seconda dell’ultimo campionato, Inter e Roma, è in programma all’Olimpico il 26 settembre alla quinta giornata

INTER-JUVE ALLA SESTA GIORNATA – Chievo-Cagliari; Genoa-Bari; Inter-Juve; Lazio-Brescia; Lecce-Catania; Parma-Milan; Udinese-Cesena; Bologna-Samp; Fiorentina-Palermo; Napoli-Roma

MILAN-JUVE ALLA 9ª GIORNATA – La classica Milan-Juve si disputerà alla sesta giornata (31 ottobre)

PAOLILLO: «BALOTELLI E MAICON VERSO LA CESSIONE» – L’ad nerazzurro Paolillo fa un’importante rivelazione di mercato: «Per Maicon e Balotelli la cessione dovrebbe essere la soluzione giusta».

IL DERBY LAZIO-ROMA ALLA DECIMA – Il derby Lazio-Roma in programma il 7 novembre, per la decima giornata. Ritorno il 13 marzo

NAPOLI-PALERMO ALLA QUINDICESIMA – La sfida tra le due grandi del sud, Napoli e Palermo, è in programma alla quindicesima giornata al San Paolo. Nello stesso turno in programma anche Lazio-Inter

DERBY DI MILANO E JUVE ROMA ALLA DODICESIMA – Inter-Milan alla dodicesima (14 novembre), ritorno 3 aprile. Nella stessa giornata anche Juve-Roma

Ecco tutte le 38 giornate:

1a giornata (and. 29 ago 2010; rit. 16 gen 2011)

BARI-JUVENTUS

BOLOGNA-INTER

CHIEVO-CATANIA

FIORENTINA-NAPOLI

MILAN-LECCE

PALERMO-CAGLIARI

PARMA-BRESCIA

ROMA-CESENA

SAMPORIA-LAZIO

UDINESE-GENOA

2a giornata (and. 12 SET 2010; rit. 23 GEN 2011)

BRESCIA – PALERMO

CAGLIARI – ROMA

CATANIA – PARMA

CESENA – MILAN

GENOA – CHIEVO

INTER – UDINESE

JUVENTUS – SAMPDORIA

LAZIO – BOLOGNA

LECCE – FIORENTINA

NAPOLI – PARMA

3a giornata (AND. 19 SET 2010; rit. 30 GEN 2011)

BARI-CAGLIARI

CESENA-LECCE

CHIEVO-BRESCIA

FIORENTINA-LAZIO

MILAN-CATANIA

PARMA-GENOA

ROMA-BOLOGNA

SAMPDORIA-NAPOLI

UDINESE-JUVENTUS

4a giornata (and. 22 SET 2010; rit. 2 FEB 2011)

BOLOGNA-UDINESE

BRESCIA-ROMA

CAGLIARI-SAMPDORIA

CATANIA-CESENA

GENOA-FIORENTINA

INTER-BARI

JUVENTUS-PALERMO

LAZIO-MILAN

LECCE-PARMA

NAPOLI-CHIEVO

5a giornata (and. 26 SET 2010; rit. 6 FEB 2011)

BARI-BRESCIA

CATANIA-BOLOGNA

CESENA-NAPOLI

CHIEVO-LAZIO

FIORENTINA-PARMA

JUVENTUS-CAGLIARI

MILAN-GENOA

PALERMO-LECCE

ROMA-INTER

SAMPDORIA-UDINESE

6a giornata (and. 3 OTT 2010; rit. 13 FEB 2011)

BOLOGNA-SAMPDORIA

CHIEVO-CAGLIARI

FIORENTINA-PALERMO

GENOA-BARI

INTER-JUVENTUS

LAZIO-BRESCIA

LECCE-CATANIA

NAPOLI-ROMA

PARMA-MILAN

UDINESE-CESENA

7a giornata (and. 17 OTT 2010; rit. 20 FEB 2011)

BARI-LAZIO

BRESCIA-UDINESE

CAGLIARI-INTER

CATANIA-NAPOLI

CESENA-PARMA

JUVENTUS-LECCE

MILAN-CHIEVO

PALERMO-BOLOGNA

ROMA-GENOA

SAMPDORIA-FIORENTINA

8a giornata (and. 24 OTT 2010; rit. 27 FEB 2011)

BOLOGNA-JUVENTUS

CHIEVO-CESENA

FIORENTINA-BARI

GENOA-CATANIA

INTER-SAMPDORIA

LAZIO-CAGLIARI

LECCE-BRESCIA

NAPOLI-MILAN

PARMA-ROMA

UDINESE-PALERMO

9a giornata (and. 31 OTT 2010; rit. 6 MAR 2011)

BARI-UDINESE

BRESCIA-NAPOLI

CAGLIARI-BOLOGNA

CATANIA-FIORENTINA

CESENA-SAMPDORIA

GENOA-INTER

MILAN-JUVENTUS

PALERMO-LAZIO

PARMA-CHIEVO

ROMA-LECCE

10a giornata (and. 7 NOV 2010; rit. 13 MAR 2011)

BARI-MILAN

BOLOGNA-LECCE

FIORENTINA-CHIEVO

INTER-BRESCIA

JUVENTUS-CESENA

LAZIO-ROMA

NAPOLI-PARMA

PALERMO-GENOA

SAMPDORIA-CATANIA

UDINESE-CAGLIARI

11a giornata (and. 10 NOV 2010; rit. 20 MAR 2011)

BRESCIA-JUVENTUS

CAGLIARI-NAPOLI

CATANIA-UDINESE

CESENA-LAZIO

CHIEVO-BARI

GENOA-BOLOGNA

LECCE-INTER

MILAN-PALERMO

PARMA-SAMPDORIA

ROMA-FIORENTINA

12a giornata (and. 14 NOV 2010; rit. 3 APR 2011)

BARI-PARMA

BOLOGNA-BRESCIA

CAGLIARI-GENOA

FIORENTINA-CESENA

INTER-MILAN

JUVENTUS-ROMA

LAZIO-NAPOLI

PALERMO-CATANIA

SAMPDORIA-CHIEVO

UDINESE-LECCE

13a giornata (and. 21 NOV 2010; rit. 10 APR 2011)

BRESCIA-CAGLIARI

CATANIA-BARI

CESENA-PALERMO

CHIEVO-INTER

GENOA-JUVENTUS

LECCE-SAMPDORIA

MILAN-FIORENTINA

NAPOLI-BOLOGNA

PARMA-LAZIO

ROMA-UDINESE

14a giornata (and. 28 NOV 2010; rit. 17 APR 2011)

BARI-CESENA

BOLOGNA-CHIEVO

BRESCIA-GENOA

CAGLIARI-LECCE

INTER-PARMA

JUVENTUS-FIORENTINA

LAZIO-CATANIA

PALERMO-ROMA

SAMPDORIA-MILAN

UDINESE-NAPOLI

15a giornata (and. 5 DIC 2010; rit. 23 APR 2011)

CATANIA-JUVENTUS

CESENA-BOLOGNA

CHIEVO-ROMA

FIORENTINA-CAGLIARI

LAZIO-INTER

LECCE-GENOA

MILAN-BRESCIA

NAPOLI-PALERMO

PARMA-UDINESE

SAMPDORIA-BARI

16a giornata (and. 12 DIC 2010; rit. 1 MAG 2011)

BOLOGNA-MILAN

BRESCIA-SAMPDORIA

CAGLIARI-CATANIA

GENOA-NAPOLI

INTER-CESENA

JUVENTUS-LAZIO

LECCE-CHIEVO

PALERMO-PARMA

ROMA-BARI

UDINESE-FIORENTINA

17a giornata (and. 19 DIC 2010; rit. 8 MAG 2011)

BARI-PALERMO

CATANIA-BRESCIA

CESENA-CAGLIARI

CHIEVO-JUVENTUS

FIORENTINA-INTER

LAZIO-UDINESE

MILAN-ROMA

NAPOLI-LECCE

PARMA-BOLOGNA

SAMPDORIA-GENOA

18a giornata (and. 6 GEN 2011; rit. 15 MAG 2011)

BOLOGNA-FIORENTINA

BRESCIA-CESENA

CAGLIARI-MILAN

GENOA-LAZIO

INTER-NAPOLI

JUVENTUS-PARMA

LECCE-BARI

PALERMO-SAMPDORIA

ROMA-CATANIA

UDINESE-CHIEVO

19a giornata (and. 9 GEN 2011; rit. 22 MAG 2011)

BARI-BOLOGNA

CATANIA-INTER

CESENA-GENOA

CHIEVO-PALERMO

FIORENTINA-BRESCIA

LAZIO-LECCE

MILAN-UDINESE

NAPOLI-JUVENTUS

PARMA-CAGLIARI

SAMPDORIA-ROMA

(*) Giornalista sportivo e studente LUISS

 

COMPRESSIVE SENSING: UN NUOVO MODO DI CREARE IMMAGINI.

di Dario Leone (*)

L’avvento delle immagini digitali ha risolto molti dei problemi riguardanti la loro controparte analogica, come la possibilitá di modificarle a proprio piacimento in maniera semplice o il poterle conservare in piccoli dipsositivi di memoria e poterle richiamare in momenti successivi.  D’altro canto é stato necessario adattare la tecnologia a questo tipo di immagini, creando database, memorie e macchine fotografiche apposite.
Al giorno d’oggi tutte o quasi le immagini create in campi scientifici sono digitali: immagini da satellite, immagine create da microscopi elettronici, e immagini a scopo medico con particolare attenzione alla TAC e alla risonanza magnetica.
Come oramai tutti sanno, per ottenere imagini di piú alta qualitá é necesssario avere un numero di pixel, ovvero di singoli elementi di un immagine, piú alto possibile.

Quando si scatta una fotografia con la propria macchina fotografica digitale il problema consiste semplicemente nel mettere il maggior numero di pixel all’interno della foto, problema non sempre banale ma comunque non insormontabile, lasciando quindi il tempo necessario per creare l’immagine costante. In altri campi, come ad esempio la risonanza magnetica nucleare, i valori di ogni singolo pixel vanno rilevati uno alla volta, e quindi il tempo necessario per creare una singola immagine sará direttamente proporzionale al numero di elementi con cui vogliamo creare la singola imagine. Quando si effettua una risonanza magnetica, bisogna trovare un compromesso tra la qualitá dell’immagine e il tempo necessario per poterla generare, dato che, maggiore sará il tempo necessario, piú sarà probabile che si verifichi la possibilità che il paziente si muova rendendo l’immagine di qualitá  inferiore.
Una nuova tecnica di rivelazione e trasmissione delle immagini, peró, e’ stata ideata negli ultimi anni. Questa tecnica, detta “compressed sensing”, permetterebbe di rivelare la stessa immagine con un numero di misure inferiori al numero di pixel necessari, diminuendo significativamente il tempo necessario per creare l’immagine. Questa tecnica si basa sul caso. Infatti, invece di rilevare ogni sognolo pixel dell’immaigne, se ne rilevano un numero variabile in una combinazione del tutto casuale. Facendo poi un’interpolazione, ovvero sovrapponendo i dati di ogni rilevazione, e’ possibile creare l’immagine senza perdere alcuna risoluzione, aggiungendo una condizione matematica.
La matematica che si cela dietro questa tecinca è complessa, e in questo momento si sta cercando di creare macchine capaci di generare quella casualitá necessaria per creare le immagini secondo questa tecnica. Il guadagno temporale nel creare le immagini in questo modo dovrebbe essere talmente significativo che potrebbe rivoluzionare il mondo dell’imaging, compreso l’imaging medico, dove spesso si preferisce la TAC alla risonanza magnetica per via dei tempi necessari ad eseguire questi esami. La diminuzione dei tempi per creare un singolo frame potrebbe infatti portare un giorno ad avere nella risonanza magnetica non solo immagini statiche, ma eventualmente sequenze video create in tempo reale.

(*) Laureato in Fisica, studente in Fisica medica e corrispondente estero presso la Columbia University di New York

ECCO A VOI IL CAMPUS GIOVANI “PROTECTION WITH ACTION”

COMUNICATO STAMPA DELLA CROCE ROSSA ITALIANA

Loc. Stignano, San Marco in Lamis (FG)

Dal 10 al 16 agosto si terrà, presso l’affascinante Oasi di Stignano, nelle vicinanze di San Marco in Lamis  (FG), il Campus Giovani “Protection with action”, organizzato dalla Croce Rossa Italiana in accordo con il Ministero della Gioventù. Quarantotto ospiti dai 14 ai 20 anni arriveranno da ogni regione d’Italia. Ragazzi esterni alla Croce Rossa Italiana vivranno per sette giorni a contatto con i loro coetanei volontari che si occuperanno di informarli, formarli, farli divertire, cercando di rendere il loro soggiorno indimenticabile. Oggi più che mai risulta di fondamentale importanza una riflessione profonda sul binomio protezione-azione.

In ambito sanitario, infatti, la protezione è il principio primo di ogni azione: non si agisce mai bene se non nella certezza di farlo in un ambiente il più sicuro possibile. Iniziare ad infondere tali principi a partire dai più giovani ci dà la speranza di poter avere, nel futuro prossimo, figure altamente professionali, pienamente consapevoli delle potenzialità a loro disposizione.

Il Campus ha, quindi, un’organizzazione della didattica incentrata sull’area sanitaria e prende le mosse dalle campagne che i Giovani della Croce Rossa Italiana stanno sviscerando negli ultimi anni. Lo scopo del Campus, che per gli ospiti è completamente gratuito, è anche quello di avvicinare altri giovani al mondo, ai Principi e ai Valori del Movimento Internazionale di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa.

IO SONO LA DISINTEGRAZIONE

di Alessandro Antoony  Maritato (*)

Frida aveva sopracciglia unite – per non far scappare lo sguardo (uno sguardo attento, doloroso, costantemente rivolto dentro di sé). Era nata nel 1907, messicana fino alla punta dei capelli, anche se metà delle sue radici venivano dalla vecchia Europa. Una famiglia unita: padre fotografo talentuoso, amatissimo dalla figlia, e una madre devota e di carattere (con cui il rapporto fu ben più conflittuale) – tre sorelle e due sorellastre. La sua infanzia fu relativamente serena, nella casa dalle tinte forti, in mezzo agli scatti del padre – eppure la bambina era già afflitta da un corpo sbagliato; per anni si è creduto fosse stata la poliomielite a renderla claudicante, mentre oggi si propende per la teoria che l’artista avesse la spina bifida, un grave difetto del tubo neurale.

In ogni caso, la malattia era in forma lieve e permise che i primi anni della ragazzina fossero allegri e molto movimentati, visto che Frida già mostrava una personalità ben radicata e poco accomodante. Adolescente inquieta e sensuale, pur nel suo aspetto minuto e minuscolo, fu un incidente stradale a stravolgere la sua vita e a darci la pittrice – uno scontro, nel 1925. L’autobus su cui era Frida andò in frantumi, e così la schiena, la gamba e il bacino della ragazza.

Le fratture quasi non si contavano e per mesi si pensò non sarebbe mai tornata a camminare. Ebbe invece una quasi miracolosa (ma momentanea) ripresa che fece sperare che l’unico effetto a lungo termine dello scontro sarebbe stato un “semplice” accentuarsi della zoppia. Fu nella lunga convalescenza, totalmente bloccata a letto, che iniziò (in una posizione scomoda – scomoda sotto le coperte e nella vita) a dipingere. Per passare giornate orribili e statiche, prigioniera di se stessa, di un corpo tradito, di un corpo traditore. Nessuno avrebbe immaginato che un tentativo di occupare il tempo avrebbe fatto nascere Frida Kahlo. Il suo amore giovanile se ne andò mentre lei stava in quelle condizioni, la vita scorreva al di fuori, e Frida aveva solo se stessa e le sue quattro pareti.  Poi ecco appunto l’attimo che sembra di ripresa – l’attimo in cui va dal grande pittore Diego Rivera, enorme di mole ed ego, e gli chiede un parere professionale dei propri lavori. E’ lui, quello che lei stessa avrebbe definito, con innamorata e furiosa ironia, il secondo incidente della sua esistenza: Diego. Un epicureo, in un certo senso; dipingeva, si godeva la vita, pieno nelle forme e nel piacere. Brutto, piaceva alle donne per quella sua passionalità latina e istintiva e pare che nessuna riuscì a resistergli (neppure l’adorata sorella della Kahlo) – e Frida non fece eccezione, per una volta. Si sposarono nel 1929 – in seguito si separarono e convolarono nuovamente a nozze. Un amore complesso, quello dell’elefante e della colomba, come scherzosamente si definivano; lui traditore, lei innamorata ma non cieca e nemmeno casta. Nel loro menage (anzi al piano di sotto) l’ex moglie e i figli di lui; tra loro, una quantità di donne (alcune amate anche da Frida), qualche uomo che fu più distrazione che altro e persino il celebre Trotsky, che aveva cercato rifugio in Messico.  E la pittura – furiosa, continua, necessaria nei lunghi periodi atroci. I dissidi con la madre, i figli mai arrivati, il matrimonio complicato (critico fu il viaggio negli Stati Uniti, dove Diego, fervente comunista, si trovò stranamente bene e fu assai apprezzato, mentre la moglie rimpiangeva il suo Messico) e trentacinque interventi chirurgici – per lo più alla schiena, alla gamba e al piede. Interventi ogni volta seguiti da mesi e mesi costretti nel gesso, una statua vivissima nel suo sudario colorato. Un’esistere pieno ed estenuante, malgrado tutto; poche esposizioni, anche se storica fu la sua prima mostra in patria – il medico le aveva detto di evitare di alzarsi dal solito giaciglio e lei dunque si era fatta portare nel centro della sala, fra i suoi quadri. Ironica, spietata, lei dipingeva la sua realtà – il sogno non le aveva voluto bene, il sognare le era penoso; la sua, una realtà surrealistica, ma – paradossalmente – oggettiva.  E poi la morte – dopo una vita di dolore fisico e psicologico. Nel 1954, con l’arto ormai amputato, un fisico in sfacelo e un biglietto nel quale si augurava di non tornare più (ma non si crede si sia trattato di un suicidio – in ogni caso, le condizioni erano ormai tragiche).  Più di un suo dipinto su tre è un autoritratto – con Frida Kahlo non si tratta di vera psicopatologia: non c’è schizofrenia o altro, ma solo un’enorme e motivata ansia e un’ovvia depressione. Ma lei era di più – della somma delle sue parti ferite e della sua angoscia.  I colori che usava quasi fanno male agli occhi: colori vividi, di Messico, di terra e di rosso, di pena (pennellate disperate e rabbiose, che non vogliono essere belle, ma raccontare, spiegare, disvelare). Le due Frida, collegate, impossibili da slegare nei loro aspetti disgiunti ma non abbastanza; quel viso in cui almeno lo sguardo è tenuto assieme, le lacrime, la colonna spezzata, le facce dei famigliari, quelle radici che la legano al letto, al terreno, ferma, prigioniera – i feti, il corpo sezionato, il corpo studiato, riprodotto ossessivamente nelle sue imperfezioni, nei suoi sbagli. Cantare la propria agonia non è per forza un narcisismo vuoto; è anche coraggio. Il coraggio di scendere in fondo al dolore, per vedere se si riesce a scioglierlo un poco – anche perché è troppo da tenere dentro. Il suo fu un narcisismo che diede un poema epico. I piedi sofferenti, la gamba, se stessa, in quei colori fortissimi che graffiano, in quello sgretolarsi di certezze, in quei deserti aridi eppure così significativi. E lei, la sua faccia, due dimensioni schiacciate su tela, in un’autobiografia continua che sferza. E’un vento spietato, Frida, ed è stata sfortunatissima ma non ti viene da dirlo – troppo aveva dentro e ci ha dato, per avere in cambio una ignobile pietà.  La poetessa del dolore, della rabbia, del desiderio – di una vita, di movimento, di levità. Un esempio di come non sia stata una mente fragile a donarci un grande artista, stavolta, ma semplicemente l’inevitabile e universale crudeltà che talvolta caratterizza la vita.  Lei che si domandava che se ne facesse dei piedi quando aveva le ali e poi sosteneva Io sono la disintegrazione e infine nell’angolo del suo ultimo dipinto, pochi giorni prima della fine ha scritto (e probabilmente lo sentiva veramente, malgrado tutto).

(*) Pittore iscritto al GAI

MOTIVAZIONE E VOLONTÀ DI APPRENDIMENTO

di Roberta Catania

Rispetto all’adolescente, che spesso vive una fase di ribellione e demotivazione nei confronti dello studio, il giovane adulto presenta una certa motivazione all’apprendimento in generale: egli si sente spesso responsabile del proprio percorso formativo, ha già compiuto decisioni rilevanti come la scelta del corso di laurea, la compilazione di un piano di studi personalizzato e, in molti casi, la scelta di uno stage professionalizzante, e dunque può manifestare un’idea piuttosto chiara dei propri obiettivi di apprendimento. Le radici della motivazione possono invece essere molto soggettive: c’è chi sceglie un certo corso di studi per la propria crescita culturale, chi per obiettivi professionali precisi, chi nell’ottica di un perfezionamento all’estero…

Ciò influisce notevolmente sulla motivazione all’apprendimento delle lingue, che possono essere percepite come un arricchimento del proprio bagaglio culturale, o al contrario come una “distrazione” rispetto agli obiettivi primari del proprio percorso di studi.

Queste differenze non sono tuttavia intrinseche all’allievo, ma dipendono dalla varietà di situazioni glottodidattiche e di offerte formative, per cui in alcuni casi lo studio delle lingue è una scelta personale, in altri è vissuto come imposizione, in altri ancora è percepito come necessità.

UNA NUOVA CONCEZIONE DI MARKETING

di Emanuela Maria Maritato (*)

Il marketing degli anni 2000 non è più solamente qualcosa di economico, di quantitativo, di statistico; non è fatto solo di termini come “quote di mercato”, “mercati di nicchia”, “ciclo di vita dei prodotti”, “ROI” e via d dicendo. Già Kotler, quasi dieci anni fa diceva che il cliente è una persona, e che quindi la qualità è qualcosa che va valutato dal cliente come persona che ha la facoltà di acquistare o meno. Oggi secondo Trevisani il marketing deve puntare esclusivamente sul rapporto psicologico e personale tra fornitore e cliente. Quote e numeri passano sullo sfondo, di fronte vi è la psicologia del produttore, del venditore, del consumatore, del decisore aziendale.

Ecco dunque che il marketing non è più solamente quella scienza arida e seriosa fatta di diagrammi a torta, di regressioni lineari, di preventivi e consuntivi, di politiche di prezzo e di strategie di distribuzione, ma diventa una affascinante disciplina centrata sul legame più forte che esiste tra le persone, quello che le spinge a dare e prendere qualcosa l’una dall’altra, a cercare, a sognare, a immaginare, a volere, a cedere proprie risorse in cambio di oggetti di desiderio.

L’acquisto non è soltanto un banale atto con cui ci si procura ciò di cui si ha bisogno, ma è un’azione simbolica con cui ci si costruisce la propria immagine sociale e la propria relazione con gli altri. L’acquisto è solo l’atto emblematico e conclusivo di tutto un processo articolato e complesso com’è complessa la natura umana vista nella sua interezza. Il consumatore, nel caso “business to consumer”, o il responsabile acquisti di un’azienda, nel caso “business to business”, sono persone intere, che amano ed odiano, provano simpatie ed antipatie, hanno un concetto di sé che vogliono confermare. Le loro decisioni di acquisto sono fortemente condizionate da questo insieme di pulsioni, al cui interno le considerazioni razionali si mischiano con emozioni, timori, bisogni latenti. Il marketing apre nuove finestre sul panorama delle percezioni sensoriali, della teoria della Gestalt, secondo cui noi riorganizziamo le nostre percezioni in base a ciò che sappiamo, del budget mentale che assegna diverse priorità alle decisioni, dei bisogni di Maslow, secondo cui ai bisogni primari seguono bisogni sempre più sofisticati. Aver fatto un buon prodotto, con un prezzo competitivo, e avere una buona rete di vendita non basta più per avere successo in un mercato saturo. Al giorno d’oggi non compriamo qualcosa perché ci serve, ma perché soddisfa una serie di nostri bisogni psicologici. Basti pensare ad un giovane di città che acquista un costoso fuoristrada solo come status symbol e non per andare a fare un raid sahariano. O a quei prodotti che fanno tendenza, che testimoniano dell’appartenenza ad un gruppo o ad un modo di pensare, come accade per il commercio equo e solidale. Anche la customer satisfaction è rivista alla luce delle complessità psicologiche, in virtù delle quali non si tratta più solo di soddisfare le attese del cliente, ma di ridurre quel gap che fatalmente esiste fra il prodotto reale e il prodotto ideale che il cliente sogna nella sua mente. Viene da pensare che la vendita diventi così qualcosa di troppo raffinato per lasciarla fare solo ai venditori, e che il marketing non possa essere solo roba da economisti. Infatti, non a caso, molti manager vengono da studi umanistico-filosofici e dalla comunicazione. E anche i grandi venditori sono buoni conoscitori della psicologia delle persone, magari senza saperlo. Recentemente tutto un filone del marketing si è occupato prevalentemente della scienza della relazione con il cliente: basti pensare a tutti gli studi sul marketing relazionale, e sul Customer relationship marketing. La ricerca tradizionale ha ignorato per molto tempo un aspetto molto importante dell’esperienza del consumatore: spiegare il suo comportamento attraverso lo studio del ruolo che le emozioni, i sentimenti e le percezioni hanno sulle scelte individuali. La ricerca nel comportamento d’acquisto dovrebbe quindi essere orientata verso gli aspetti immaginativi, sensoriali ed emozionali dell’esperienza personale. Questo non significa certamente che si deve respingere l’approccio tradizionale al consumatore, ma piuttosto allargare il campo di ricerca comprendendovi la dimensione sensoriale ed emozionale. Il comportamento del consumatore sembra essere il risultato di molteplici interazioni tra l’individuo e l’ambiente. In questo processo dinamico non vanno tralasciati né gli atteggiamenti orientati al problem-solving, né quelli relativi alla ricerca di esperienze. Se i ricercatori guardano al consumatore come ad un “elaboratore” di informazioni, essi finiscono per ignorare gli aspetti esperenziali che vengono coinvolti nel processo di acquisto. Il campo di studi deve quindi prendere in considerazione il piacere del consumatore e la sua ricerca di sensazioni. La ricerca tradizionale sull’elaborazione di informazioni da parte del consumatore si è limitata a quella di natura verbale. Si dovrebbe, invece, includere le creazioni simboliche e non verbali, originate dall’immaginazione mentale, così come gli elementi cognitivi trattati dai modelli tradizionali. La risposta emozionale dell’individuo si manifesta sotto forma di uno spettro di emozioni piuttosto che di una gerarchia di preferenze. Le componenti comportamentali presenti nell’atto di acquisto si apprendono con l’analisi dell’esperienza personale; le conseguenze del consumo vanno ricercate nell’apparenza estetica e nelle emozioni che essa provoca nell’individuo. I modelli di ricerca sul comportamento del consumatore stanno attraversando una fase di rinnovamento.

(*) Giornalista Freelance e Direttore del Gruppo editoriale Maritato

UNA NUOVA CONCEZIONE DI MARKETING

di Emanuela Maria Maritato (*)

Il marketing degli anni 2000 non è più solamente qualcosa di economico, di quantitativo, di statistico; non è fatto solo di termini come “quote di mercato”, “mercati di nicchia”, “ciclo di vita dei prodotti”, “ROI” e via d dicendo. Già Kotler, quasi dieci anni fa diceva che il cliente è una persona, e che quindi la qualità è qualcosa che va valutato dal cliente come persona che ha la facoltà di acquistare o meno. Oggi secondo Trevisani il marketing deve puntare esclusivamente sul rapporto psicologico e personale tra fornitore e cliente. Quote e numeri passano sullo sfondo, di fronte vi è la psicologia del produttore, del venditore, del consumatore, del decisore aziendale.

Ecco dunque che il marketing non è più solamente quella scienza arida e seriosa fatta di diagrammi a torta, di regressioni lineari, di preventivi e consuntivi, di politiche di prezzo e di strategie di distribuzione, ma diventa una affascinante disciplina centrata sul legame più forte che esiste tra le persone, quello che le spinge a dare e prendere qualcosa l’una dall’altra, a cercare, a sognare, a immaginare, a volere, a cedere proprie risorse in cambio di oggetti di desiderio.

L’acquisto non è soltanto un banale atto con cui ci si procura ciò di cui si ha bisogno, ma è un’azione simbolica con cui ci si costruisce la propria immagine sociale e la propria relazione con gli altri. L’acquisto è solo l’atto emblematico e conclusivo di tutto un processo articolato e complesso com’è complessa la natura umana vista nella sua interezza. Il consumatore, nel caso “business to consumer”, o il responsabile acquisti di un’azienda, nel caso “business to business”, sono persone intere, che amano ed odiano, provano simpatie ed antipatie, hanno un concetto di sé che vogliono confermare. Le loro decisioni di acquisto sono fortemente condizionate da questo insieme di pulsioni, al cui interno le considerazioni razionali si mischiano con emozioni, timori, bisogni latenti. Il marketing apre nuove finestre sul panorama delle percezioni sensoriali, della teoria della Gestalt, secondo cui noi riorganizziamo le nostre percezioni in base a ciò che sappiamo, del budget mentale che assegna diverse priorità alle decisioni, dei bisogni di Maslow, secondo cui ai bisogni primari seguono bisogni sempre più sofisticati. Aver fatto un buon prodotto, con un prezzo competitivo, e avere una buona rete di vendita non basta più per avere successo in un mercato saturo. Al giorno d’oggi non compriamo qualcosa perché ci serve, ma perché soddisfa una serie di nostri bisogni psicologici. Basti pensare ad un giovane di città che acquista un costoso fuoristrada solo come status symbol e non per andare a fare un raid sahariano. O a quei prodotti che fanno tendenza, che testimoniano dell’appartenenza ad un gruppo o ad un modo di pensare, come accade per il commercio equo e solidale. Anche la customer satisfaction è rivista alla luce delle complessità psicologiche, in virtù delle quali non si tratta più solo di soddisfare le attese del cliente, ma di ridurre quel gap che fatalmente esiste fra il prodotto reale e il prodotto ideale che il cliente sogna nella sua mente. Viene da pensare che la vendita diventi così qualcosa di troppo raffinato per lasciarla fare solo ai venditori, e che il marketing non possa essere solo roba da economisti. Infatti, non a caso, molti manager vengono da studi umanistico-filosofici e dalla comunicazione. E anche i grandi venditori sono buoni conoscitori della psicologia delle persone, magari senza saperlo. Recentemente tutto un filone del marketing si è occupato prevalentemente della scienza della relazione con il cliente: basti pensare a tutti gli studi sul marketing relazionale, e sul Customer relationship marketing. La ricerca tradizionale ha ignorato per molto tempo un aspetto molto importante dell’esperienza del consumatore: spiegare il suo comportamento attraverso lo studio del ruolo che le emozioni, i sentimenti e le percezioni hanno sulle scelte individuali. La ricerca nel comportamento d’acquisto dovrebbe quindi essere orientata verso gli aspetti immaginativi, sensoriali ed emozionali dell’esperienza personale. Questo non significa certamente che si deve respingere l’approccio tradizionale al consumatore, ma piuttosto allargare il campo di ricerca comprendendovi la dimensione sensoriale ed emozionale. Il comportamento del consumatore sembra essere il risultato di molteplici interazioni tra l’individuo e l’ambiente. In questo processo dinamico non vanno tralasciati né gli atteggiamenti orientati al problem-solving, né quelli relativi alla ricerca di esperienze. Se i ricercatori guardano al consumatore come ad un “elaboratore” di informazioni, essi finiscono per ignorare gli aspetti esperenziali che vengono coinvolti nel processo di acquisto. Il campo di studi deve quindi prendere in considerazione il piacere del consumatore e la sua ricerca di sensazioni. La ricerca tradizionale sull’elaborazione di informazioni da parte del consumatore si è limitata a quella di natura verbale. Si dovrebbe, invece, includere le creazioni simboliche e non verbali, originate dall’immaginazione mentale, così come gli elementi cognitivi trattati dai modelli tradizionali. La risposta emozionale dell’individuo si manifesta sotto forma di uno spettro di emozioni piuttosto che di una gerarchia di preferenze. Le componenti comportamentali presenti nell’atto di acquisto si apprendono con l’analisi dell’esperienza personale; le conseguenze del consumo vanno ricercate nell’apparenza estetica e nelle emozioni che essa provoca nell’individuo. I modelli di ricerca sul comportamento del consumatore stanno attraversando una fase di rinnovamento.

(*) Giornalista Freelance e Direttore del Gruppo editoriale Maritato

DUE EVENTI DELL’ATTUALE PANORAMA ITALIANO PASSATI INOSSERVATI

di Francesco Bruni (*)

Tra mille vicissitudini che attanagliano in questo frangente estivo il panorama italiano, due eventi sono sfuggiti ai più. Due eventi fondamentali su cui si interrogano oggi gli esperti e taluni giornali atti a descrivere come l’Italia e il  Mediterraneo potrebbero cambiare.
Il primo concerne la designazione di Veronesi a responsabile capo di un’agenzia atta a controllare la produzione di energia dalle centrali nucleari. Il secondo concerne la decisione di Hayward di trivellare il fondale mediterraneo alla ricerca del petrolio. Vediamone i dettagli.
Veronesi, senatore del Pd, oncologo di fama internazionale, premiato con il Nobel, è da sempre stato a favore della produzione di energia di cui sopra. Una scelta consenziente che deriva anche dagli ottimi risultati conseguiti a seguito di esperimenti atti a curare determinati tumori mediante l’uso del “nucleare”, che hanno permesso al senatore di vincere il Nobel.

Il problema vero, al di là di mere questioni politiche, è che Veronesi a capo di una futura agenzia sul nucleare, adesso che il governo italiano ha già scelto le locations dove sorgeranno le centrali, lascia quantomeno perplessi. Il motivo va ricercato nel fatto che l’intervento del senatore è stato richiesto, in maniera non ufficiale certo, per la gestione di centrali nucleari che saranno costruite sul modello delle francesi, dato che, come presentato in un altro mio pezzo, quelle di quarta generazione non riusciremo a vederle realizzate prima del 2030.
Veronesi, dunque, che ha già affermato in questi giorni di accettare l’incarico propostogli dal Ministro Prestigiacomo, è conscio del fatto che avrà il compito di occuparsi della sicurezza di impianti nucleari vecchiotti nonostante miglioramenti evidenti che li rendono più sicuri?
Ben lungi da associare alle moderne centrali il disastro di Chernobyl, non sarebbe stato meglio se il governo prima e il senatore poi avessero optato per l’investimento economico in centrali di quarta generazione, più efficienti e meno pericolose di quelle che si ha intenzione di costruire?
Il secondo evento riguarda la British Petrolium. L’amministratore delegato Hayward ha annunciato, come riportato ieri su “La Repubblica”, di voler trivellare il Mediterraneo alla ricerca dell’oro nero, dopo aver avuto la prova certa che in esso ci sia petrolio, informazione ottenuta mediante l’uso di particolari scansioni 3D del fondale marino. Il problema non va ricercato nel fatto che una grossa multinazionale cerchi del petrolio in acque mediterranee, perché, con opportuni permessi, tale atto sarebbe giusto.
La perplessità di molti va ricercata nel fatto che, a seguito dell’incidente che non trova ancora una soluzione efficace, chiara e definitiva nel Golfo del Messico, è davvero utile e sicuro affidare la trivellazione del fondale alla stessa azienda che ha provocato il disastro americano?
E non sarebbe meglio, invece, investire il denaro necessario alla creazione di pozzi nella ricerca di altre fonti rinnovabili che ledano definitivamente il vincolo uomo-petrolio?
Mi rendo conto che le motivazioni politiche/economiche alla base delle situazioni qui presentate sono davvero complesse e sfuggono all’immaginario comune. Ma una serie riflessione, a questo punto, diviene indispensabile.

(*) Studente di Ingegneria delle Telecomunicazioni al Politecnico di Bari

DI COSA HANNO BISOGNO I GIOVANI?

di Roberta Catania

Joseph Joubert ha detto “i giovani hanno più bisogno di esempi che di critiche”, oggi più che mai questa frase risulta attuale. Forse è questo il vero problema, esistono esempi davvero validi? Quali sono i modelli da cui noi giovani dovremmo ispirarci? Quali sono gli esempi che la società mi, e ci, propone?
L’esempio più pratico viene dai piccoli, dai futuri giovani, dalla cosiddetta “bocca della verità”, i quali alla domanda “cosa vuoi fare da grande?” non rispondono più “l’astronauta” o “la veterinaria” ma “il tronista” o “la velina”. Questo da sé risponderebbe alle domande prima poste. Quali sono le informazioni che ci arrivano dai media?
Notorietà facile, fama acquistata senza meriti concreti, bellezza messa a disposizione della telecamera o di una macchina fotografica come via alternativa e ormai facilmente raggiungibile alla vecchia cara gavetta.

Oggi il corpo è tutto. Maschi o femmine non importa, se non hai un canale su youtube, un book fotografico inviato ad un’agenzia, se non partecipi ai più svariati casting, oggi non puoi nemmeno sperare di raggiungere la tanto desiderata fama. Fama che non porta nulla di costruttivo per la vita di un giovane che, affascinato da questo mondo di plastica, non valuta nessuna possibile alternativa per il suo futuro.
Riprendendo l’aforisma di Joubert, qual’è la chiave di lettura di questa situazione?
Mancano gli esempi, ma tutti hanno comunque da criticare. Oggi, e in questi ultimi mesi più che mai un video su youtube, di una ragazza piuttosto che di un ragazzo, nel quale ci si cimenta nelle più inutili attività, riceve milioni di visite, quando non va a finire addirittura al telegiornale.
E’ facile dare la colpa ai giovani, credere che la loro mancanza di pudore, di morale e di rispetto per se stessi dipenda esclusivamente da loro. E’ facile incolpare la scuola, i genitori, o le cattive compagnie per giustificarli. La cosa difficile sta invece nell’ammettere che nulla di quello che oggi ci viene proposto dai media ci indirizza alla realizzazione personale attraverso il sacrificio e la rinuncia.
Sono finiti per diventare termini obsoleti. Rinuncia e sacrificio.
E’ questo che la mia società mi sta trasmettendo, mi ci vogliono anni di studio, di sacrifici, di rinunce per sperare di raggiungere il ruolo o la posizione che io desidero ottenere, che mi porti successo e realizzazione, ma basta un video di nemmeno dieci minuti per darmi popolarità e parvenza di fama.
Come si può mai sperare in un cambiamento, se noi per primi, rendendoci complici, contribuiamo ad accrescere tale fenomeno?
Ai posteri l’ardua sentenza. 

A SAN MARCO IN LAMIS IL CAMPO DI FORMAZIONE DEI GIOVANI DELLA CROCE ROSSA

COMUNICATO STAMPA DELLA CROCE ROSSA ITALIANA

Loc. Stignano, San Marco in Lamis (FG)

Avrà luogo dal 2 all’8 agosto 2010, presso la suggestiva Oasi di Stignano, nelle vicinanzedi San Marco in Lamis (FG), il Campo di formazione organizzato dai Giovani della CroceRossa Italiana, denominato “Open 2010″.
 Tale evento si terrá per la terza volta inprovincia di Foggia e ospiterà oltre 100 Giovani volontari provenienti da 13 regioni d’Italia.
 L’offerta formativa del Campo si esprimerà in cinque corsi che uniscono, come un filorosso, le attività prevalenti dei Giovani della Croce Rossa Italiana.

I primi due corsi – che si terranno dal 2 al 4 agosto – porranno l’accento sull’ambito prettamente sanitario e formeranno figure specialistiche quali Simulatori e Truccatori di Primo Soccorso, di precipuo rilievo nell’attività di prevenzione e di analisi delle dinamiche di soccorso. I restanti tre corsi, invece, avranno luogo dal 4 all’8 agosto e riguarderanno l’AreaSviluppo, l’Area Pace e l’Area Cooperazione Internazionale. La prima di queste aree si occupa di “conquistare e mantenere la fiducia nel nostro operato, utilizzando al meglio le nuove tecnologie”. La seconda è mossa dal principio basedi ”combattere ogni discriminazione e proteggere chi non ha alcuna protezione”. L’areaCooperazione Internazionale, infine, ha l’obiettivo di “stringere amicizia con l’estero edintervenire dove necessario”.
Non si avrà mai reale sviluppo, se non si avrà una buona formazione alle spalle.
E’ proprio questo lo scopo principale del Campo di formazione “Open 2010”. Struttura a completa gestione dei Giovani della Croce Rossa Italiana, dalla segreteria allacucina, mezzi/navette, docenti, informazioni

LO STRESS NELLE PERSONE DISABILI AFFETTE DA NEUROPATIA GENETICA PROGRESSIVA: IL CASO DELLA CHARCOT-MARIE-TOOTH

di Paola Gargiulo (*)

Il costrutto di “stress” è uno tra i più complessi e si pone oggi, in maniera sempre più evidente, fra i problemi sociali più rilevanti, cui va data una tempestiva risposta a livello sia di cura che di prevenzione. Fermo restando che in generale lo stress comporta uno stato di “tensione” (l’etimo deriva dalle prove di laboratorio a cui sono sottoposti i metalli allo scopo di determinare il carico di rottura; in particolare fa riferimento alle prove di trazione, di flessione e di torsione – prove definite di stress), è importante fare una prima distinzione tra le parole stressor e stress propriamente detto:
• Lo stressor è una situazione-stimolo qualsiasi, cioè un qualsiasi evento che ci accade; questo può essere sia positivo che negativo.
• Lo stress (termine inglese che significa “sforzo”) è la risposta generica del nostro organismo allo stimolo stressante.

È importante inoltre comprendere (a partire dalle teorie di Selye fino ai più recenti studi psicofisiologici) come si passi da uno stress di tipo acuto (per il quale l’organismo si mette in condizioni di reagire ad eventi esterni che devono essere affrontati e risolti), ad uno di tipo cronico in cui lo stress permane al di là delle reali esigenze esterne e produce effetti estremamente dannosi di logoramento e di squilibrio dei funzionamenti normalmente fisiologici dell’organismo.
In passato gli studi erano mirati all’individuazione di eventi stressanti maggiori e a studiare le loro conseguenze sulla salute dell’individuo. Recentemente si è invece rivolta l’attenzione anche ai piccoli eventi della vita quotidiana che, se sommati, possono essere di rilevante importanza.

Il tema dello stress come fattore di rischio per la salute è uno dei più popolari in psicologia della salute, al punto che alcuni hanno recentemente affermato che ne costituisce il costrutto centrale. Tuttavia, un’area consistente di questa disciplina si occupa di studiare la malattia come evento critico (cioè come stressor), e le strategie messe in atto dai soggetti per adattarsi a specifiche malattie e disabilità con gradi diversi di gravità e durata.
Le “teorie della crisi” spiegano come le persone affrontano le maggiori transizioni o fasi critiche della loro vita, e vengono utilizzate per esaminare l’impatto di una nuova malattia sull’identità personale e sociale. Il presupposto di queste teorie è che i sistemi psicologici individuali, così come i sistemi biologici, sono finalizzati a mantenere un’omeostasi; in tal modo, le crisi si risolvono poiché l’individuo trova un modo per ritornare alla stabilità e per autoregolare il suo stato psicologico su nuovi standard.
Un altro approccio teorico applicato alla comprensione della gestione della malattia è quello dell’adattamento cognitivo di Taylor e collaboratori i quali, attraverso una serie di interviste a persone malate di cancro, hanno evidenziato che l’adattamento a una malattia è il risultato di tre processi:
– una ricerca di significato (in cui la persona si domanda “Perché è successo proprio a me?”),
– una ricerca di padronanza (in cui la persona si convince che la sua malattia è in qualche modo controllabile) e
– una fase di crescita personale che avviene attraverso un miglioramento dell’autostima e azioni di confronto sociale, tra cui quella del confronto con altri che stanno peggio.

La maggioranza degli studi ha analizzato e classificato le fasi psicologiche che il paziente adulto attraversa dopo essere venuto improvvisamente a conoscenza di essere affetto da una patologia minacciosa per la vita, come il cancro o l’AIDS, o responsabile di grave disabilità, come la sclerosi multipla o la paraplegia post-traumatica. Riguardo alle malattie che esordiscono in età infantile o in adolescenza e che comportano disabilità cronica, la maggior parte dei lavori è stata rivolta a patologie non genetiche, quali la sindrome postpolio e la paralisi cerebrale infantile, o ad affezioni ereditarie gravi e a prognosi infausta come la distrofia muscolare di Duchenne. Invece solo pochissimi studi hanno preso in considerazione le problematiche psicologiche dei pazienti affetti da malattie genetiche non mortali ma responsabili di disabilità progressiva di grado lieve o medio, con esordio nell’infanzia o nell’adolescenza. I pazienti affetti da questo gruppo di patologie differiscono sia dai soggetti sani perché le loro prestazioni motorie sono meno valide e perché sono portatori di un difetto genetico trasmissibile alla prole, sia dai soggetti che la nostra società identifica con il termine disabile o handicappato perché sono di intelligenza normale e possono camminare e compiere le attività della vita quotidiana in maniera autonoma.

Un esempio di tali patologie è la malattia di Charcot-Marie-Tooth (CMT), una neuropatia genetica progressiva che causa indebolimento ed atrofia dei muscoli dei piedi, delle gambe e delle mani, con conseguenti difficoltà nella deambulazione e nella prensione. La CMT non compromette le funzioni cognitive né riduce la durata della vita e, tranne eccezioni, la capacità di deambulare non viene perduta. Tuttavia è stato recentemente dimostrato che la qualità della vita dei pazienti affetti da CMT è ridotta, sia negli aspetti fisici sia, anche se in forma minore, in quelli mentali (vitalità, funzionamento sociale, ruolo emozionale, benessere mentale).

La malattia inizia nella stragrande maggioranza dei casi nella prima o nella seconda decade della vita, per cui, essendo l’organismo in accrescimento, può comportare delle alterazioni dello sviluppo osseo ed articolare dei piedi, delle ginocchia, delle anche e della colonna. Tali deformità, unitamente alla scarsità dei muscoli, possono determinare un’alterazione della propria immagine corporea. Nella CMT le problematiche psicologiche sono correlate con le preoccupazioni per la progressività della malattia e della disabilità, con l’isolamento sociale, con le difficoltà a trovare un lavoro adatto, con le remore circa la procreazione, con le difficoltà a trovare e ad accettare protesi ed ausili.
La CMT è un’affezione che altera la vita in maniera globale in quanto si manifesta in età infantile o in adolescenza, periodi della vita in cui il fanciullo dovrebbe vivere nella completa spensieratezza; altera l’aspetto fisico in una fase della vita (l’adolescenza) in cui ogni difetto, anche minimo, non è tollerato; è una malattia genetica e quindi trasmissibile alla prole e ciò comporta la comparsa di remore circa la procreazione; altera le più importanti funzioni degli arti (la deambulazione e la prensione), con conseguente minore efficienza al lavoro e nelle attività della vita quotidiana; è incurabile e progressiva per cui il futuro può apparire incerto.
Una revisione della letteratura scientifica ha mostrato un’estrema scarsità di studi sulle problematiche psicologiche dei pazienti affetti da malattia di CMT. Arnold (2005), in uno studio finalizzato a determinare il ruolo del counseling genetico, intervistò 14 pazienti statunitensi affetti da CMT, in maggioranza di età superiore ai 50 anni e senza valutazioni oggettive del livello di gravità. I problemi rilevati riguardavano soprattutto l’impatto della diagnosi sui pazienti, l’adattamento e il coping nella CMT, e l’esperienza del consiglio genetico. La maggioranza degli intervistati vivevano con la CMT da molti anni senza che essa fosse stata diagnosticata e si dichiararono sollevati quando trovarono una risposta alla causa della loro debolezza e delle loro limitazioni in quanto, a causa delle loro scarse prestazioni fisiche, essi venivano spesso etichettati come pigri e goffi. Riguardo il secondo punto, molti intervistati dissero che avere la CMT significa vivere con uno stigma associato con l’avere una disabilità. Alcuni di questi problemi furono rilevati anche da Vappu (1991) in un lavoro su 67 pazienti neuromuscolari finlandesi basato sulla compilazione di un questionario redatto mescolando item provenienti da più repertori. L’autore non specifica le patologie dei pazienti valutati ma, essendo la CMT una malattia neuromuscolare, quasi sicuramente lo studio includeva anche soggetti con questa patologia. I risultati di questo studio rivelarono che i soggetti nel gruppo sperimentale erano introversi e tentavano di tenere i loro sentimenti sotto controllo. Erano presenti forme di ansia e bassa autostima. Inoltre, essi erano subordinati, conformisti, attenti e analitici nelle relazioni umane, pieni di risentimento e sospettosi riguardo le altre persone.

Un altro elemento interessante emerso da questo studio è la negazione: era tipico per tutti i tipi di problemi che venissero negati e il quadro che i soggetti con malattia neuromuscolare dipingevano di loro stessi era troppo normale. Secondo Vappu, sulla base di questo studio è giustificato affermare che le persone con malattie neuromuscolari sono spesso esauste sia fisicamente sia psicologicamente.
De Mari (2003) sostiene che uno dei compiti fondamentali del medico dovrebbe consistere nell’aiutare il paziente a gestire lo stress che il prendere coscienza della sua patologia può causargli. Questa presa di coscienza, secondo De Mari, può essere talmente devastante da sfociare in alcuni casi in un disturbo depressivo, che va a sommarsi alla patologia di base. L’acquisire coscienza di avere una patologia cronica non suscettibile di guarigione può essere uno stress talmente grave da essere equiparato a un lutto: il paziente deve essere aiutato ad elaborare il lutto per la sua normalità. Nel caso di una malattia geneticamente trasmissibile e progressiva come la CMT, i lutti sono tre:
– la normalità,
– la stabilizzazione della propria situazione,
– la salute degli eventuali figli.

A conclusione di questa breve rassegna limitata alla CMT, è utile riassumere quanto è stato scritto in passato sulle problematiche psicologiche associate alla disabilità motoria, indipendentemente dalla causa che l’ha determinata. Classicamente si fa una distinzione in base all’età d’esordio, essendo i problemi di coloro che sono disabili dalla nascita o dall’infanzia nettamente differenti da quelli di coloro che lo diventano in età adulta, cioè dopo aver vissuto una parte della loro vita senza la malattia.
Rosemary Shakespeare in “Psicologia dell’handicappato” (1982) sostiene che se la disabilità si manifesta in età infantile, “costringe” il bambino ad inserire nel proprio processo formativo dell’autoconoscenza anche la conoscenza della propria disabilità. Tuttavia, secondo l’autrice, è difficile generalizzare quando ciò avvenga, in quanto non esiste nessuna indicazione in proposito. Di solito il bambino si rende conto di avere un deficit nello stesso momento in cui si accorge che gli altri non lo hanno: per esempio, quando si accorge che gli altri bambini corrono e lui no, oppure quando si rende conto che i suoi movimenti sono sgraziati e, pertanto, diviene oggetto di derisione e discriminazione. In certi casi, la coscienza della disabilità può avvenire in età adolescenziale: la ricerca di un lavoro e le prime esperienze sentimentali sono considerate determinanti per la presa di coscienza della disabilità e dell’atteggiamento degli altri nei confronti della disabilità stessa. Se invece questa si manifesta in età adulta, l’autoconoscenza può subire una improvvisa e totale modificazione, e in caso di disabilità grave, deve essere acquisita una immagine di sé del tutto diversa dalla precedente. Angoscia e depressione possono comparire come reazione alla perdita della precedente personalità e di specifiche capacità. Può esservi anche un assoluto negativismo, che si traduce concretamente nel rifiuto di accettare la propria disabilità. In generale il prendere coscienza delle proprie limitazioni tende ad avvenire con particolare drammaticità in momenti così detticritici”, vale a dire quei momenti che sono già critici nella evoluzione delle persone sane, e che lo sono anche di più nelle persone con una disabilità:
– l’ingresso a scuola e il conseguente confronto con i coetanei;
– il riuscire a ottenere un appuntamento con una ragazza o un ragazzo;
– il procurarsi un lavoro normale e venire accettato da un datore di lavoro senza la speciale qualifica di invalido; riuscire a staccarsi dal nucleo famigliare e vivere per conto proprio;
– sposarsi e riuscire a mantenere la propria famiglia.
La Shakespeare rileva che il contatto con altre persone può essere un’importante esperienza per la presa di coscienza del proprio handicap, con conseguenze diverse. In generale i bambini tendono a sentirsi rassicurati rendendosi conto che vi sono altri bambini con i loro stessi problemi, e si sentono così meno “soli”. Negli adulti l’effetto può variare: alcuni si sentono rassicurati trovandosi con persone che hanno i loro stessi problemi e con cui possono condividere un certo numero di attività; altri, particolarmente se la loro disabilità è di gravità intermedia, sono depressi e perfino terrorizzati all’idea di dover far parte di un gruppo di disabili, e cercano di evitare di associarsi con il gruppo stesso. Secondo l’autrice infatti, un dilemma di base per la persona disabile è quella del gruppo di appartenenza, cioè, fino a che punto il disabile deve identificarsi con “gli handicappati” e fino a che punto può considerarsi parte della società “normale”.
Il processo di integrazione al gruppo appare chiaramente in rapporto alla gravità dell’handicap:
gli handicappati gravi subiscono meno frustrazioni, in quanto hanno meno occasioni di dilemmi e di scelte;
i disabili meno gravi invece, situandosi fra la disabilità e la non disabilità, si sentono “ai margini” e da qui nasce la loro insicurezza.

Molti soggetti “marginali” si spingono agli estremi per coprire una disabilità, evitando ogni occasione in cui potrebbe palesarsi; divengono socialmente appartati, evitando i contatti con altre persone, in quanto incapaci di tollerare l’ansia derivante dalla continua incertezza che la loro disabilità si palesi, e che possa non essere accettata.

Altri autori si sono espressi riguardo agli effetti psicologici dell’handicap.
Starrett (1961) pone in evidenza anche nei paraplegici la presenza di difese permanenti quali rifiuto, ostilità e depressione per quanto all’inizio questi pazienti si dimostrano molto ansiosi, temendo la distruzione della loro immagine fisica. Baldaro Verde (1987) tratta in particolare le tematiche relative alla sessualità e le relazioni con il partner del disabile motorio (fisico). L’autore scrive che questi soggetti vivono grandi sentimenti di inferiorità che li conducono ad interiorizzare la convinzione di non essere accettati dagli altri, di essere rifiutati o comunque di non poter raggiungere un rapporto di scambio alla pari. Essi infatti si mettono in relazione sempre secondo la propria mappa cognitiva legata ad insuccessi precedenti e quindi in posizione down, in quanto l’aspetto fisico nella nostra cultura è ritenuto molto importante ai fini di ottenere delle risposte positive. Secondo l’autore, l’handicap è una “ferita sul sé corporeo” e, nel caso in cui sopraggiunge in età adulta, esso rappresenta un ostacolo da deprivazione in quanto il soggetto aveva già acquisito una identità sessuale “certa”. Anche Baldaro Verde si esprime in merito alla necessità per il disabile di un processo riabilitativo globale, il cui principio ispiratore dovrebbe essere, secondo l’autore, porre l’accento non sull’invalidità ma sulla persona e sulle sue capacità e il valorizzare quindi non ciò che manca ma ciò che c’è.

Da quanto sopra esposto appare evidente che l’esistenza di una persona disabile è costellata da difficoltà e sfide che potrebbero determinare uno stato di stress cronico.


La ricerca: lo stress nella malattia di Charcot-Marie-Tooth. Lo scopo principale del presente lavoro fu quello di accertare la presenza di sintomi indicativi di stress in un campione di persone affette da malattia di Charcot-Marie-Tooth ben caratterizzato eziologicamente e clinicamente e rappresentativo della maggioranza della popolazione affetta da questa malattia. Un obiettivo secondario era di conoscere meglio le problematiche che assillano questa tipologia di pazienti onde indirizzare meglio l’intervento riabilitativo. In questo studio furono presi in considerazione 35 pazienti di età compresa tra 16 e 60 anni (età media di 39,9 anni), consecutivamente esaminati presso il Servizio di Consulenza Riabilitativa dell’Associazione Italiana Charcot-Marie-Tooth nel periodo maggio-dicembre 2006. Tutti avevano una diagnosi certa di CMT, essendo già stati sottoposti a visita neurologica e ad accertamenti elettrofisiologici e genetici in ambiente universitario specializzato in patologie del sistema nervoso periferico. All’inizio di questo studio fu stabilito di includere pazienti in grado di sostenere le prove richieste e il più possibile omogenei per quanto riguarda la gravità clinica e le sollecitazioni ambientali, pertanto furono esclusi:
a) i bambini fino a 15 anni di età;
b) i soggetti non in grado di deambulare, sia perché i loro problemi sono diversi da quelli della maggioranza dei cosiddetti CMT, sia perché in Italia la vita sociale e lavorativa delle persone in carrozzina è in genere molto limitata e quindi l’esposizione a stressor ambientali è presumibilmente ridotta;
c) i portatori di una mutazione responsabile di CMT ma ancora asintomatici o esenti persino dalla prima alterazione podalica responsabile di menomazione della deambulazione (caduta dell’avampiede o lieve deficit di dorsiflessione), in quanto essi non si trovano ancora a fronteggiare le difficoltà dei pazienti con malattia manifesta;
d) i pazienti di età superiore a 60 anni, sia poiché la presenza di altre malattie e problematiche tipiche dell’età senile avrebbero potuto impedire la comprensione di quelle tipiche della CMT, sia perché le persone ultrasessantenni sono pensionate e hanno una minore esposizione agli stressor ambientali rispetto alle persone in età lavorativa.
Pertanto i pazienti inclusi in questo studio avevano un’età tra 16 e 60 anni e un livello di gravità clinica compreso tra il 1° e il 5° della classificazione funzionale in 7 stadi proposta da Vinci: ciò implica che tutti erano in grado di deambulare autonomamente, sebbene alcuni di loro necessitassero di un dispositivo ortesico tipo molla di Codivilla o di plantari o di adattamenti alle calzature. La durata della malattia, cioè il tempo trascorso dalla comparsa dei primi disturbi riferibili a CMT fino al giorno della visita, era compreso, in base a quanto riferito dai pazienti, tra gli 8 e i 50 anni, con una media di 26,3. Il 34,3% dei pazienti aveva figli. Riguardo l’attività lavorativa, una paziente era studentessa, 9 pazienti (25,7%) non lavoravano, 7 pazienti ( 20%) svolgevano un lavoro autonomo, 11 pazienti (31,4%) svolgevano un lavoro a orario pieno ma di tipo impiegatizio e 7 (20%) svolgevano un lavoro a orario o mansioni ridotte.

Metodi

Il principale strumento utilizzato fu il Symptom Questionnaire (SQ) di Kellner in versione italiana, edito dalle Organizzazioni Speciali, costituito da item con risposta dicotomica sì/no, vero/falso. Ai pazienti fu chiesto di prendere in considerazione lo stato psicologico dei 7 giorni precedenti, sia per comprendere un periodo abbastanza ampio, sia per evitare il riferimento ad un evento non ordinario come il viaggio da casa all’ambulatorio che, per alcuni persone provenienti da lontano, poteva essere piuttosto stressante. Quindi, fu effettuata una breve intervista guidata per investigare sulle problematiche che eventualmente il paziente affrontava nella sua vita quotidiana. L’elenco di domande fu redatto da un gruppo di lavoro ad hoc composto da persone affette da CMT, tra cui un fisiatra e uno psicologo, e comprendeva le situazioni e le sensazioni che, in base alla loro esperienza personale, comportano disagio o stress. Come controlli furono utilizzati 35 soggetti non affetti da CMT, della stessa età e sesso dei pazienti, presi a caso nella popolazione generale.

Risultati


Non furono rilevate differenze statisticamente significative tra i soggetti esaminati e il gruppo di controllo in nessuna delle quattro scale dell’SQ. Neppure furono trovate differenze statisticamente significative tra i soggetti malati e quelli sani raggruppati per sesso e in base all’età. Dalla visita fisiatrica risultò che:
–  5 pazienti erano allo stadio 1;
–  8 allo stadio 2;
–  5 allo stadio 3;
–  13 allo stadio 4;
–  4 allo stadio 5.

Riguardo alle ortesi, il fisiatra rilevò che, sebbene esse fossero state già prescritte a 22 pazienti che si trovavano agli stadi 3, 4 e 5, esse erano utilizzate solo da 7 persone (31,8%). Dall’intervista è emerso che i pazienti si trovano cronicamente ad affrontare le seguenti problematiche:

1.  necessità di porre molta attenzione in attività della vita quotidiana che normalmente vengono effettuate in maniera automatica o semi-automatica o comunque con poco impegno attentivo: cammino su terreno liscio (45,7%), cammino su terreno sconnesso (97,1%), cammino tra la folla (80%), cammino in ambiente poco illuminato (88,6%), scale senza corrimano (il 100% delle persone che hanno dichiarato di essere in grado di effettuare tale attività, cioè 15 soggetti);
2. limitazioni quantitative delle normali attività della vita quotidiana per evitare la comparsa di dolore, di stanchezza e di ulcerazioni ai piedi, come avviene nella deambulazione (74,3%), per prevenire la comparsa di crampi e di debolezza da sovraffaticamento, come avviene nella attività manuali, tipo scrivere, usare il computer, cucinare (57,2%);
3. comportamenti coercitivi in conseguenza della necessità di prevenire conseguenze dannose (rinunce, dolori, cadute, disagio, trasmissione della malattia) per l’individuo stesso o per gli altri: ricerca del parcheggio più vicino possibile al luogo da raggiungere (71,4%), ricerca di accessi privi di barriere architettoniche (31,4%), evitamento della procreazione (60,6%);
4. deficit nella funzionalità delle mani, per cui gli oggetti cadono facilmente a terra (65,7%) e molte attività sono ostacolate (80%): ciò avviene più frequentemente in inverno quando le basse temperature provocano una paresi funzionale nell’85,7% dei pazienti;
5. frequente presenza di dolore, sia nella forma di bruciore e formicolio (37,1%), sia come segno di sofferenza articolare agli arti inferiori e alla colonna (68,5%), sia in conseguenza delle ortesi (85,7% dei 7 pazienti che le utilizzavano);
6. imbarazzo, quando la gente volge lo sguardo agli arti inferiori claudicanti o alle mani atrofiche (65,7%), quando vengono rivolte domande riguardo la causa della propria menomazione (42,9%), e disagio quando gli altri non si accorgono di essere in presenza di una persona con limitazioni (ad esempio alla cassa del supermercato nel maneggiare gli spiccioli) e si aspettano un comportamento uguale alle persone sane (54,3%);
7. rapporto negativo con il proprio corpo (85,7% dei pazienti riferisce dispiacere nell’osservare i propri piedi) e con le ortesi anti-equino (tutti e 7 i pazienti che le usavano hanno affermato di odiarle mentre gli altri 15 hanno dichiarato che “non volevano” ancora metterle;
8. alterazione del rapporto di coppia attribuibile alla CMT in una minima percentuale (18,7%): questo dato però potrebbe essere sottostimato in quanto è imbarazzante per il paziente confessare apertamente problematiche private.

Discussione

Questo studio fu condotto su 35 persone in età lavorativa, affette da CMT demielinizzante o assonale, che si rivolgono al medico riabilitatore per problemi di deambulazione e di prensione. Queste persone asserivano di avere, a causa della CMT, numerose difficoltà nella loro vita quotidiana, da quelle direttamente derivanti dalle menomazioni funzionali degli arti inferiori e superiori, a quelle psicologiche conseguenti al fatto di essere portatori di una patologia genetica progressiva.
Sebbene da una popolazione di pazienti con tali caratteristiche ci si aspettasse un livello di stress maggiore rispetto ai soggetti sani, il test psicometrico loro somministrato non rivelò differenze statisticamente significative rispetto alla popolazione generale di pari età e sesso. Questi risultati sono abbastanza sorprendenti e meritano delle riflessioni.
Innanzitutto va rilevato che la maggioranza dei pazienti esaminati non conduce una vita uguale a quella del gruppo di controllo: molti pazienti non hanno figli e quindi non devono provvedere ai numerosi e faticosi compiti imposti dall’essere genitori, quasi tutti hanno riduzioni d’orario o svolgono mansioni poco faticose al lavoro, alcuni non lavorano affatto e beneficiano di pensione d’invalidità. D’altra parte reperire un gruppo di controllo in maniera casuale con tutte le caratteristiche dei soggetti affetti non era possibile, in quanto le persone sane di età tra 16 e 60 anni lavorano ed allevano figli. Andarli a cercare di proposito significherebbe selezionare un altro gruppo patologico.
Dopodiché va considerato che i pazienti esaminati hanno la CMT da molto tempo (range 8-50 anni, media 26,3) e quindi hanno imparato a convivere con le difficoltà della vita quotidiana senza lasciarsi coinvolgere troppo in campo emotivo e quindi evitando la comparsa di stress. Essi sanno che alcune attività, come chiudere una cerniera o salire le scale senza corrimano, sono difficoltose ad effettuarsi e costano fatica, sanno che è inutile inquietarsi se d’inverno le chiavi cadono dalle mani e ci vuole tempo per aprire il portone di casa, come pure sanno bene che, se si cammina in maniera strana, la gente fissa lo sguardo ai piedi e che, entrando in un negozio, il gestore si allarma perché pensa di essere di fronte a una persona ubriaca. La maggioranza dei pazienti ha iniziato a camminare male nell’infanzia o nell’adolescenza e quindi si è abituata alle reazioni della gente e agli ostacoli della vita sociale, per cui non si turba più di tanto. Oltre a non lasciarsi coinvolgere emotivamente, i pazienti con CMT possono aver appreso come evitare il manifestarsi di problemi durante la vita quotidiana: camminando poco e parcheggiando più vicino possibile al luogo da raggiungere, scegliendo un lavoro poco faticoso oppure accettando un lavoro con orario ridotto o con mansioni sedentarie, si evita la comparsa di fatica e dolore, quindi si evitano possibili stressor.
Come esempio riportiamo il caso di un paziente che alcuni anni prima lamentava stanchezza cronica e dolori muscolari diffusi accompagnati da ansia libera e somatizzata. Questi fu informato che i suoi problemi erano dovuti all’eccessivo impegno fisico derivante dal lavoro dipendente come legale di una multinazionale. Il paziente lasciò l’impiego e intraprese la libera professione, in cui poteva decidere autonomamente quando e quanto lavorare, con progressiva riduzione dei disturbi e, al nostro test, con un punteggio del tutto normale. Dei nostri pazienti solo uno svolgeva un lavoro dipendente senza alcuna facilitazione d’orario o di carico di lavoro. La sua attività di magazziniere si svolgeva in ambiente non riscaldato e comportava il continuo alzarsi, sedersi e camminare per 10 ore al giorno e sotto la pressione dei clienti, nonché scrivere calcando e manipolare oggetti. Al test SQ egli presentava livelli molto elevati di ansia e sintomi somatici. Recentemente il paziente ci ha informati di aver ottenuto il pensionamento per invalidità e di sentirsi molto meglio. Anche il fatto di non avere figli, fenomeno presente nel 65,7% dei nostri pazienti, è la conseguenza di un adattamento per evitamento:
a) del dovere di procreare figli sani, perché comporterebbe problemi di natura morale e impegno fisico connessi con l’effettuazione della diagnosi prenatale e dell’aborto eugenico;
b) del ruolo di genitori, perché il genitore affetto da CMT avrebbe difficoltà fisiche ad allevare dei bambini, sani o malati che siano.

Da questo studio emerge un dato molto importante per i riabilitatori: solo il 31,8% dei 22 pazienti cui era stata precedentemente prescritta un’ortesi anti-equino la utilizzava. Questo studio non chiarisce se la scarsa accettazione delle ortesi dipende dal dolore ad esse associato o da motivi psicologici, ma è probabile che prevalga questo secondo meccanismo, come già suggerito da altri autori. Verosimilmente il mancato utilizzo delle ortesi è connesso con il meccanismo di adattamento per evitamento: non utilizzando le ortesi, il paziente non solo evita l’impatto psicologico di un dispositivo che supplisce ad una funzione perché non si è più in grado di effettuarla con le proprie forze, ma evita anche tutte quelle situazioni potenzialmente stressanti connesse con il miglioramento della deambulazione e il sembrare normali.
Un altro meccanismo che potrebbe spiegare i risultati del Symptom Questionnaire è la negazione, per cui i sintomi di patologia o anormalità vengono inconsciamente o consciamente negati al fine di apparire normali a tutti i costi. In alcuni casi la negazione appare persino troppo evidente: due pazienti svolgono lavori manuali (elettricista e idraulico) pur avendo una grave compromissione muscolare delle mani ed è inverosimile che nella settimana precedente alla somministrazione del test non abbiano avuto nessun sintomo conseguente al loro impegno, quale dolore o stanchezza, e alle difficoltà che sicuramente avranno incontrato nello svolgimento di attività così faticose. È evidente che questi soggetti negano nel dipingere un quadro di loro stessi che è palesemente “troppo normale”: questo rilievo è in accordo con quanto trovato sui soggetti con malattia neuromuscolare studiati da Vappu. Il meccanismo della negazione potrebbe intervenire anche nell’accettazione delle ortesi in una logica “Non inciampo e non cado, quindi non ho bisogno di ortesi, quindi non sono grave, anzi sono pressoché normale”.

Conclusioni


In questo studio i pazienti CMT non sono apparsi più stressati della popolazione generale nonostante debbano confrontarsi con numerosi problemi fisici e psicosociali nella loro vita quotidiana. Ulteriori studi sono necessari per confermare questi dati, per comprendere meglio i meccanismi di coping elaborati e per risolvere le problematiche ortesico-riabilitative presentate dai pazienti di questo studio.

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(*) Psicologia Clinica, Presidente dell’associazione italiana Charcot – Marie – Tooth Onlus

LO STRESS NELLE PERSONE DISABILI AFFETTE DA NEUROPATIA GENETICA PROGRESSIVA: IL CASO DELLA CHARCOT-MARIE-TOOTH

di Paola Gargiulo (*)

Il costrutto di “stress” è uno tra i più complessi e si pone oggi, in maniera sempre più evidente, fra i problemi sociali più rilevanti, cui va data una tempestiva risposta a livello sia di cura che di prevenzione. Fermo restando che in generale lo stress comporta uno stato di “tensione” (l’etimo deriva dalle prove di laboratorio a cui sono sottoposti i metalli allo scopo di determinare il carico di rottura; in particolare fa riferimento alle prove di trazione, di flessione e di torsione – prove definite di stress), è importante fare una prima distinzione tra le parole stressor e stress propriamente detto:
• Lo stressor è una situazione-stimolo qualsiasi, cioè un qualsiasi evento che ci accade; questo può essere sia positivo che negativo.
• Lo stress (termine inglese che significa “sforzo”) è la risposta generica del nostro organismo allo stimolo stressante.

 

È importante inoltre comprendere (a partire dalle teorie di Selye fino ai più recenti studi psicofisiologici) come si passi da uno stress di tipo acuto (per il quale l’organismo si mette in condizioni di reagire ad eventi esterni che devono essere affrontati e risolti), ad uno di tipo cronico in cui lo stress permane al di là delle reali esigenze esterne e produce effetti estremamente dannosi di logoramento e di squilibrio dei funzionamenti normalmente fisiologici dell’organismo.
In passato gli studi erano mirati all’individuazione di eventi stressanti maggiori e a studiare le loro conseguenze sulla salute dell’individuo. Recentemente si è invece rivolta l’attenzione anche ai piccoli eventi della vita quotidiana che, se sommati, possono essere di rilevante importanza.

Il tema dello stress come fattore di rischio per la salute è uno dei più popolari in psicologia della salute, al punto che alcuni hanno recentemente affermato che ne costituisce il costrutto centrale. Tuttavia, un’area consistente di questa disciplina si occupa di studiare la malattia come evento critico (cioè come stressor), e le strategie messe in atto dai soggetti per adattarsi a specifiche malattie e disabilità con gradi diversi di gravità e durata.
Le “teorie della crisi” spiegano come le persone affrontano le maggiori transizioni o fasi critiche della loro vita, e vengono utilizzate per esaminare l’impatto di una nuova malattia sull’identità personale e sociale. Il presupposto di queste teorie è che i sistemi psicologici individuali, così come i sistemi biologici, sono finalizzati a mantenere un’omeostasi; in tal modo, le crisi si risolvono poiché l’individuo trova un modo per ritornare alla stabilità e per autoregolare il suo stato psicologico su nuovi standard.
Un altro approccio teorico applicato alla comprensione della gestione della malattia è quello dell’adattamento cognitivo di Taylor e collaboratori i quali, attraverso una serie di interviste a persone malate di cancro, hanno evidenziato che l’adattamento a una malattia è il risultato di tre processi:
– una ricerca di significato (in cui la persona si domanda “Perché è successo proprio a me?”),
– una ricerca di padronanza (in cui la persona si convince che la sua malattia è in qualche modo controllabile) e
– una fase di crescita personale che avviene attraverso un miglioramento dell’autostima e azioni di confronto sociale, tra cui quella del confronto con altri che stanno peggio.

La maggioranza degli studi ha analizzato e classificato le fasi psicologiche che il paziente adulto attraversa dopo essere venuto improvvisamente a conoscenza di essere affetto da una patologia minacciosa per la vita, come il cancro o l’AIDS, o responsabile di grave disabilità, come la sclerosi multipla o la paraplegia post-traumatica. Riguardo alle malattie che esordiscono in età infantile o in adolescenza e che comportano disabilità cronica, la maggior parte dei lavori è stata rivolta a patologie non genetiche, quali la sindrome postpolio e la paralisi cerebrale infantile, o ad affezioni ereditarie gravi e a prognosi infausta come la distrofia muscolare di Duchenne. Invece solo pochissimi studi hanno preso in considerazione le problematiche psicologiche dei pazienti affetti da malattie genetiche non mortali ma responsabili di disabilità progressiva di grado lieve o medio, con esordio nell’infanzia o nell’adolescenza. I pazienti affetti da questo gruppo di patologie differiscono sia dai soggetti sani perché le loro prestazioni motorie sono meno valide e perché sono portatori di un difetto genetico trasmissibile alla prole, sia dai soggetti che la nostra società identifica con il termine disabile o handicappato perché sono di intelligenza normale e possono camminare e compiere le attività della vita quotidiana in maniera autonoma.

Un esempio di tali patologie è la malattia di Charcot-Marie-Tooth (CMT), una neuropatia genetica progressiva che causa indebolimento ed atrofia dei muscoli dei piedi, delle gambe e delle mani, con conseguenti difficoltà nella deambulazione e nella prensione. La CMT non compromette le funzioni cognitive né riduce la durata della vita e, tranne eccezioni, la capacità di deambulare non viene perduta. Tuttavia è stato recentemente dimostrato che la qualità della vita dei pazienti affetti da CMT è ridotta, sia negli aspetti fisici sia, anche se in forma minore, in quelli mentali (vitalità, funzionamento sociale, ruolo emozionale, benessere mentale).

La malattia inizia nella stragrande maggioranza dei casi nella prima o nella seconda decade della vita, per cui, essendo l’organismo in accrescimento, può comportare delle alterazioni dello sviluppo osseo ed articolare dei piedi, delle ginocchia, delle anche e della colonna. Tali deformità, unitamente alla scarsità dei muscoli, possono determinare un’alterazione della propria immagine corporea. Nella CMT le problematiche psicologiche sono correlate con le preoccupazioni per la progressività della malattia e della disabilità, con l’isolamento sociale, con le difficoltà a trovare un lavoro adatto, con le remore circa la procreazione, con le difficoltà a trovare e ad accettare protesi ed ausili.
La CMT è un’affezione che altera la vita in maniera globale in quanto si manifesta in età infantile o in adolescenza, periodi della vita in cui il fanciullo dovrebbe vivere nella completa spensieratezza; altera l’aspetto fisico in una fase della vita (l’adolescenza) in cui ogni difetto, anche minimo, non è tollerato; è una malattia genetica e quindi trasmissibile alla prole e ciò comporta la comparsa di remore circa la procreazione; altera le più importanti funzioni degli arti (la deambulazione e la prensione), con conseguente minore efficienza al lavoro e nelle attività della vita quotidiana; è incurabile e progressiva per cui il futuro può apparire incerto.
Una revisione della letteratura scientifica ha mostrato un’estrema scarsità di studi sulle problematiche psicologiche dei pazienti affetti da malattia di CMT. Arnold (2005), in uno studio finalizzato a determinare il ruolo del counseling genetico, intervistò 14 pazienti statunitensi affetti da CMT, in maggioranza di età superiore ai 50 anni e senza valutazioni oggettive del livello di gravità. I problemi rilevati riguardavano soprattutto l’impatto della diagnosi sui pazienti, l’adattamento e il coping nella CMT, e l’esperienza del consiglio genetico. La maggioranza degli intervistati vivevano con la CMT da molti anni senza che essa fosse stata diagnosticata e si dichiararono sollevati quando trovarono una risposta alla causa della loro debolezza e delle loro limitazioni in quanto, a causa delle loro scarse prestazioni fisiche, essi venivano spesso etichettati come pigri e goffi. Riguardo il secondo punto, molti intervistati dissero che avere la CMT significa vivere con uno stigma associato con l’avere una disabilità. Alcuni di questi problemi furono rilevati anche da Vappu (1991) in un lavoro su 67 pazienti neuromuscolari finlandesi basato sulla compilazione di un questionario redatto mescolando item provenienti da più repertori. L’autore non specifica le patologie dei pazienti valutati ma, essendo la CMT una malattia neuromuscolare, quasi sicuramente lo studio includeva anche soggetti con questa patologia. I risultati di questo studio rivelarono che i soggetti nel gruppo sperimentale erano introversi e tentavano di tenere i loro sentimenti sotto controllo. Erano presenti forme di ansia e bassa autostima. Inoltre, essi erano subordinati, conformisti, attenti e analitici nelle relazioni umane, pieni di risentimento e sospettosi riguardo le altre persone.

Un altro elemento interessante emerso da questo studio è la negazione: era tipico per tutti i tipi di problemi che venissero negati e il quadro che i soggetti con malattia neuromuscolare dipingevano di loro stessi era troppo normale. Secondo Vappu, sulla base di questo studio è giustificato affermare che le persone con malattie neuromuscolari sono spesso esauste sia fisicamente sia psicologicamente.
De Mari (2003) sostiene che uno dei compiti fondamentali del medico dovrebbe consistere nell’aiutare il paziente a gestire lo stress che il prendere coscienza della sua patologia può causargli. Questa presa di coscienza, secondo De Mari, può essere talmente devastante da sfociare in alcuni casi in un disturbo depressivo, che va a sommarsi alla patologia di base. L’acquisire coscienza di avere una patologia cronica non suscettibile di guarigione può essere uno stress talmente grave da essere equiparato a un lutto: il paziente deve essere aiutato ad elaborare il lutto per la sua normalità. Nel caso di una malattia geneticamente trasmissibile e progressiva come la CMT, i lutti sono tre:
– la normalità,
– la stabilizzazione della propria situazione,
– la salute degli eventuali figli.

A conclusione di questa breve rassegna limitata alla CMT, è utile riassumere quanto è stato scritto in passato sulle problematiche psicologiche associate alla disabilità motoria, indipendentemente dalla causa che l’ha determinata. Classicamente si fa una distinzione in base all’età d’esordio, essendo i problemi di coloro che sono disabili dalla nascita o dall’infanzia nettamente differenti da quelli di coloro che lo diventano in età adulta, cioè dopo aver vissuto una parte della loro vita senza la malattia.
Rosemary Shakespeare in “Psicologia dell’handicappato” (1982) sostiene che se la disabilità si manifesta in età infantile, “costringe” il bambino ad inserire nel proprio processo formativo dell’autoconoscenza anche la conoscenza della propria disabilità. Tuttavia, secondo l’autrice, è difficile generalizzare quando ciò avvenga, in quanto non esiste nessuna indicazione in proposito. Di solito il bambino si rende conto di avere un deficit nello stesso momento in cui si accorge che gli altri non lo hanno: per esempio, quando si accorge che gli altri bambini corrono e lui no, oppure quando si rende conto che i suoi movimenti sono sgraziati e, pertanto, diviene oggetto di derisione e discriminazione. In certi casi, la coscienza della disabilità può avvenire in età adolescenziale: la ricerca di un lavoro e le prime esperienze sentimentali sono considerate determinanti per la presa di coscienza della disabilità e dell’atteggiamento degli altri nei confronti della disabilità stessa. Se invece questa si manifesta in età adulta, l’autoconoscenza può subire una improvvisa e totale modificazione, e in caso di disabilità grave, deve essere acquisita una immagine di sé del tutto diversa dalla precedente. Angoscia e depressione possono comparire come reazione alla perdita della precedente personalità e di specifiche capacità. Può esservi anche un assoluto negativismo, che si traduce concretamente nel rifiuto di accettare la propria disabilità. In generale il prendere coscienza delle proprie limitazioni tende ad avvenire con particolare drammaticità in momenti così detticritici”, vale a dire quei momenti che sono già critici nella evoluzione delle persone sane, e che lo sono anche di più nelle persone con una disabilità:
– l’ingresso a scuola e il conseguente confronto con i coetanei;
– il riuscire a ottenere un appuntamento con una ragazza o un ragazzo;
– il procurarsi un lavoro normale e venire accettato da un datore di lavoro senza la speciale qualifica di invalido; riuscire a staccarsi dal nucleo famigliare e vivere per conto proprio;
– sposarsi e riuscire a mantenere la propria famiglia.
La Shakespeare rileva che il contatto con altre persone può essere un’importante esperienza per la presa di coscienza del proprio handicap, con conseguenze diverse. In generale i bambini tendono a sentirsi rassicurati rendendosi conto che vi sono altri bambini con i loro stessi problemi, e si sentono così meno “soli”. Negli adulti l’effetto può variare: alcuni si sentono rassicurati trovandosi con persone che hanno i loro stessi problemi e con cui possono condividere un certo numero di attività; altri, particolarmente se la loro disabilità è di gravità intermedia, sono depressi e perfino terrorizzati all’idea di dover far parte di un gruppo di disabili, e cercano di evitare di associarsi con il gruppo stesso. Secondo l’autrice infatti, un dilemma di base per la persona disabile è quella del gruppo di appartenenza, cioè, fino a che punto il disabile deve identificarsi con “gli handicappati” e fino a che punto può considerarsi parte della società “normale”.
Il processo di integrazione al gruppo appare chiaramente in rapporto alla gravità dell’handicap:
gli handicappati gravi subiscono meno frustrazioni, in quanto hanno meno occasioni di dilemmi e di scelte;
i disabili meno gravi invece, situandosi fra la disabilità e la non disabilità, si sentono “ai margini” e da qui nasce la loro insicurezza.

Molti soggetti “marginali” si spingono agli estremi per coprire una disabilità, evitando ogni occasione in cui potrebbe palesarsi; divengono socialmente appartati, evitando i contatti con altre persone, in quanto incapaci di tollerare l’ansia derivante dalla continua incertezza che la loro disabilità si palesi, e che possa non essere accettata.

Altri autori si sono espressi riguardo agli effetti psicologici dell’handicap.
Starrett (1961) pone in evidenza anche nei paraplegici la presenza di difese permanenti quali rifiuto, ostilità e depressione per quanto all’inizio questi pazienti si dimostrano molto ansiosi, temendo la distruzione della loro immagine fisica. Baldaro Verde (1987) tratta in particolare le tematiche relative alla sessualità e le relazioni con il partner del disabile motorio (fisico). L’autore scrive che questi soggetti vivono grandi sentimenti di inferiorità che li conducono ad interiorizzare la convinzione di non essere accettati dagli altri, di essere rifiutati o comunque di non poter raggiungere un rapporto di scambio alla pari. Essi infatti si mettono in relazione sempre secondo la propria mappa cognitiva legata ad insuccessi precedenti e quindi in posizione down, in quanto l’aspetto fisico nella nostra cultura è ritenuto molto importante ai fini di ottenere delle risposte positive. Secondo l’autore, l’handicap è una “ferita sul sé corporeo” e, nel caso in cui sopraggiunge in età adulta, esso rappresenta un ostacolo da deprivazione in quanto il soggetto aveva già acquisito una identità sessuale “certa”. Anche Baldaro Verde si esprime in merito alla necessità per il disabile di un processo riabilitativo globale, il cui principio ispiratore dovrebbe essere, secondo l’autore, porre l’accento non sull’invalidità ma sulla persona e sulle sue capacità e il valorizzare quindi non ciò che manca ma ciò che c’è.

Da quanto sopra esposto appare evidente che l’esistenza di una persona disabile è costellata da difficoltà e sfide che potrebbero determinare uno stato di stress cronico.


La ricerca: lo stress nella malattia di Charcot-Marie-Tooth. Lo scopo principale del presente lavoro fu quello di accertare la presenza di sintomi indicativi di stress in un campione di persone affette da malattia di Charcot-Marie-Tooth ben caratterizzato eziologicamente e clinicamente e rappresentativo della maggioranza della popolazione affetta da questa malattia. Un obiettivo secondario era di conoscere meglio le problematiche che assillano questa tipologia di pazienti onde indirizzare meglio l’intervento riabilitativo. In questo studio furono presi in considerazione 35 pazienti di età compresa tra 16 e 60 anni (età media di 39,9 anni), consecutivamente esaminati presso il Servizio di Consulenza Riabilitativa dell’Associazione Italiana Charcot-Marie-Tooth nel periodo maggio-dicembre 2006. Tutti avevano una diagnosi certa di CMT, essendo già stati sottoposti a visita neurologica e ad accertamenti elettrofisiologici e genetici in ambiente universitario specializzato in patologie del sistema nervoso periferico. All’inizio di questo studio fu stabilito di includere pazienti in grado di sostenere le prove richieste e il più possibile omogenei per quanto riguarda la gravità clinica e le sollecitazioni ambientali, pertanto furono esclusi:
a) i bambini fino a 15 anni di età;
b) i soggetti non in grado di deambulare, sia perché i loro problemi sono diversi da quelli della maggioranza dei cosiddetti CMT, sia perché in Italia la vita sociale e lavorativa delle persone in carrozzina è in genere molto limitata e quindi l’esposizione a stressor ambientali è presumibilmente ridotta;
c) i portatori di una mutazione responsabile di CMT ma ancora asintomatici o esenti persino dalla prima alterazione podalica responsabile di menomazione della deambulazione (caduta dell’avampiede o lieve deficit di dorsiflessione), in quanto essi non si trovano ancora a fronteggiare le difficoltà dei pazienti con malattia manifesta;
d) i pazienti di età superiore a 60 anni, sia poiché la presenza di altre malattie e problematiche tipiche dell’età senile avrebbero potuto impedire la comprensione di quelle tipiche della CMT, sia perché le persone ultrasessantenni sono pensionate e hanno una minore esposizione agli stressor ambientali rispetto alle persone in età lavorativa.
Pertanto i pazienti inclusi in questo studio avevano un’età tra 16 e 60 anni e un livello di gravità clinica compreso tra il 1° e il 5° della classificazione funzionale in 7 stadi proposta da Vinci: ciò implica che tutti erano in grado di deambulare autonomamente, sebbene alcuni di loro necessitassero di un dispositivo ortesico tipo molla di Codivilla o di plantari o di adattamenti alle calzature. La durata della malattia, cioè il tempo trascorso dalla comparsa dei primi disturbi riferibili a CMT fino al giorno della visita, era compreso, in base a quanto riferito dai pazienti, tra gli 8 e i 50 anni, con una media di 26,3. Il 34,3% dei pazienti aveva figli. Riguardo l’attività lavorativa, una paziente era studentessa, 9 pazienti (25,7%) non lavoravano, 7 pazienti ( 20%) svolgevano un lavoro autonomo, 11 pazienti (31,4%) svolgevano un lavoro a orario pieno ma di tipo impiegatizio e 7 (20%) svolgevano un lavoro a orario o mansioni ridotte.

Metodi

Il principale strumento utilizzato fu il Symptom Questionnaire (SQ) di Kellner in versione italiana, edito dalle Organizzazioni Speciali, costituito da item con risposta dicotomica sì/no, vero/falso. Ai pazienti fu chiesto di prendere in considerazione lo stato psicologico dei 7 giorni precedenti, sia per comprendere un periodo abbastanza ampio, sia per evitare il riferimento ad un evento non ordinario come il viaggio da casa all’ambulatorio che, per alcuni persone provenienti da lontano, poteva essere piuttosto stressante. Quindi, fu effettuata una breve intervista guidata per investigare sulle problematiche che eventualmente il paziente affrontava nella sua vita quotidiana. L’elenco di domande fu redatto da un gruppo di lavoro ad hoc composto da persone affette da CMT, tra cui un fisiatra e uno psicologo, e comprendeva le situazioni e le sensazioni che, in base alla loro esperienza personale, comportano disagio o stress. Come controlli furono utilizzati 35 soggetti non affetti da CMT, della stessa età e sesso dei pazienti, presi a caso nella popolazione generale.

Risultati


Non furono rilevate differenze statisticamente significative tra i soggetti esaminati e il gruppo di controllo in nessuna delle quattro scale dell’SQ. Neppure furono trovate differenze statisticamente significative tra i soggetti malati e quelli sani raggruppati per sesso e in base all’età. Dalla visita fisiatrica risultò che:
–  5 pazienti erano allo stadio 1;
–  8 allo stadio 2;
–  5 allo stadio 3;
–  13 allo stadio 4;
–  4 allo stadio 5.

Riguardo alle ortesi, il fisiatra rilevò che, sebbene esse fossero state già prescritte a 22 pazienti che si trovavano agli stadi 3, 4 e 5, esse erano utilizzate solo da 7 persone (31,8%). Dall’intervista è emerso che i pazienti si trovano cronicamente ad affrontare le seguenti problematiche:

1.  necessità di porre molta attenzione in attività della vita quotidiana che normalmente vengono effettuate in maniera automatica o semi-automatica o comunque con poco impegno attentivo: cammino su terreno liscio (45,7%), cammino su terreno sconnesso (97,1%), cammino tra la folla (80%), cammino in ambiente poco illuminato (88,6%), scale senza corrimano (il 100% delle persone che hanno dichiarato di essere in grado di effettuare tale attività, cioè 15 soggetti);
2. limitazioni quantitative delle normali attività della vita quotidiana per evitare la comparsa di dolore, di stanchezza e di ulcerazioni ai piedi, come avviene nella deambulazione (74,3%), per prevenire la comparsa di crampi e di debolezza da sovraffaticamento, come avviene nella attività manuali, tipo scrivere, usare il computer, cucinare (57,2%);
3. comportamenti coercitivi in conseguenza della necessità di prevenire conseguenze dannose (rinunce, dolori, cadute, disagio, trasmissione della malattia) per l’individuo stesso o per gli altri: ricerca del parcheggio più vicino possibile al luogo da raggiungere (71,4%), ricerca di accessi privi di barriere architettoniche (31,4%), evitamento della procreazione (60,6%);
4. deficit nella funzionalità delle mani, per cui gli oggetti cadono facilmente a terra (65,7%) e molte attività sono ostacolate (80%): ciò avviene più frequentemente in inverno quando le basse temperature provocano una paresi funzionale nell’85,7% dei pazienti;
5. frequente presenza di dolore, sia nella forma di bruciore e formicolio (37,1%), sia come segno di sofferenza articolare agli arti inferiori e alla colonna (68,5%), sia in conseguenza delle ortesi (85,7% dei 7 pazienti che le utilizzavano);
6. imbarazzo, quando la gente volge lo sguardo agli arti inferiori claudicanti o alle mani atrofiche (65,7%), quando vengono rivolte domande riguardo la causa della propria menomazione (42,9%), e disagio quando gli altri non si accorgono di essere in presenza di una persona con limitazioni (ad esempio alla cassa del supermercato nel maneggiare gli spiccioli) e si aspettano un comportamento uguale alle persone sane (54,3%);
7. rapporto negativo con il proprio corpo (85,7% dei pazienti riferisce dispiacere nell’osservare i propri piedi) e con le ortesi anti-equino (tutti e 7 i pazienti che le usavano hanno affermato di odiarle mentre gli altri 15 hanno dichiarato che “non volevano” ancora metterle;
8. alterazione del rapporto di coppia attribuibile alla CMT in una minima percentuale (18,7%): questo dato però potrebbe essere sottostimato in quanto è imbarazzante per il paziente confessare apertamente problematiche private.

Discussione

Questo studio fu condotto su 35 persone in età lavorativa, affette da CMT demielinizzante o assonale, che si rivolgono al medico riabilitatore per problemi di deambulazione e di prensione. Queste persone asserivano di avere, a causa della CMT, numerose difficoltà nella loro vita quotidiana, da quelle direttamente derivanti dalle menomazioni funzionali degli arti inferiori e superiori, a quelle psicologiche conseguenti al fatto di essere portatori di una patologia genetica progressiva.
Sebbene da una popolazione di pazienti con tali caratteristiche ci si aspettasse un livello di stress maggiore rispetto ai soggetti sani, il test psicometrico loro somministrato non rivelò differenze statisticamente significative rispetto alla popolazione generale di pari età e sesso. Questi risultati sono abbastanza sorprendenti e meritano delle riflessioni.
Innanzitutto va rilevato che la maggioranza dei pazienti esaminati non conduce una vita uguale a quella del gruppo di controllo: molti pazienti non hanno figli e quindi non devono provvedere ai numerosi e faticosi compiti imposti dall’essere genitori, quasi tutti hanno riduzioni d’orario o svolgono mansioni poco faticose al lavoro, alcuni non lavorano affatto e beneficiano di pensione d’invalidità. D’altra parte reperire un gruppo di controllo in maniera casuale con tutte le caratteristiche dei soggetti affetti non era possibile, in quanto le persone sane di età tra 16 e 60 anni lavorano ed allevano figli. Andarli a cercare di proposito significherebbe selezionare un altro gruppo patologico.
Dopodiché va considerato che i pazienti esaminati hanno la CMT da molto tempo (range 8-50 anni, media 26,3) e quindi hanno imparato a convivere con le difficoltà della vita quotidiana senza lasciarsi coinvolgere troppo in campo emotivo e quindi evitando la comparsa di stress. Essi sanno che alcune attività, come chiudere una cerniera o salire le scale senza corrimano, sono difficoltose ad effettuarsi e costano fatica, sanno che è inutile inquietarsi se d’inverno le chiavi cadono dalle mani e ci vuole tempo per aprire il portone di casa, come pure sanno bene che, se si cammina in maniera strana, la gente fissa lo sguardo ai piedi e che, entrando in un negozio, il gestore si allarma perché pensa di essere di fronte a una persona ubriaca. La maggioranza dei pazienti ha iniziato a camminare male nell’infanzia o nell’adolescenza e quindi si è abituata alle reazioni della gente e agli ostacoli della vita sociale, per cui non si turba più di tanto. Oltre a non lasciarsi coinvolgere emotivamente, i pazienti con CMT possono aver appreso come evitare il manifestarsi di problemi durante la vita quotidiana: camminando poco e parcheggiando più vicino possibile al luogo da raggiungere, scegliendo un lavoro poco faticoso oppure accettando un lavoro con orario ridotto o con mansioni sedentarie, si evita la comparsa di fatica e dolore, quindi si evitano possibili stressor.
Come esempio riportiamo il caso di un paziente che alcuni anni prima lamentava stanchezza cronica e dolori muscolari diffusi accompagnati da ansia libera e somatizzata. Questi fu informato che i suoi problemi erano dovuti all’eccessivo impegno fisico derivante dal lavoro dipendente come legale di una multinazionale. Il paziente lasciò l’impiego e intraprese la libera professione, in cui poteva decidere autonomamente quando e quanto lavorare, con progressiva riduzione dei disturbi e, al nostro test, con un punteggio del tutto normale. Dei nostri pazienti solo uno svolgeva un lavoro dipendente senza alcuna facilitazione d’orario o di carico di lavoro. La sua attività di magazziniere si svolgeva in ambiente non riscaldato e comportava il continuo alzarsi, sedersi e camminare per 10 ore al giorno e sotto la pressione dei clienti, nonché scrivere calcando e manipolare oggetti. Al test SQ egli presentava livelli molto elevati di ansia e sintomi somatici. Recentemente il paziente ci ha informati di aver ottenuto il pensionamento per invalidità e di sentirsi molto meglio. Anche il fatto di non avere figli, fenomeno presente nel 65,7% dei nostri pazienti, è la conseguenza di un adattamento per evitamento:
a) del dovere di procreare figli sani, perché comporterebbe problemi di natura morale e impegno fisico connessi con l’effettuazione della diagnosi prenatale e dell’aborto eugenico;
b) del ruolo di genitori, perché il genitore affetto da CMT avrebbe difficoltà fisiche ad allevare dei bambini, sani o malati che siano.

Da questo studio emerge un dato molto importante per i riabilitatori: solo il 31,8% dei 22 pazienti cui era stata precedentemente prescritta un’ortesi anti-equino la utilizzava. Questo studio non chiarisce se la scarsa accettazione delle ortesi dipende dal dolore ad esse associato o da motivi psicologici, ma è probabile che prevalga questo secondo meccanismo, come già suggerito da altri autori. Verosimilmente il mancato utilizzo delle ortesi è connesso con il meccanismo di adattamento per evitamento: non utilizzando le ortesi, il paziente non solo evita l’impatto psicologico di un dispositivo che supplisce ad una funzione perché non si è più in grado di effettuarla con le proprie forze, ma evita anche tutte quelle situazioni potenzialmente stressanti connesse con il miglioramento della deambulazione e il sembrare normali.
Un altro meccanismo che potrebbe spiegare i risultati del Symptom Questionnaire è la negazione, per cui i sintomi di patologia o anormalità vengono inconsciamente o consciamente negati al fine di apparire normali a tutti i costi. In alcuni casi la negazione appare persino troppo evidente: due pazienti svolgono lavori manuali (elettricista e idraulico) pur avendo una grave compromissione muscolare delle mani ed è inverosimile che nella settimana precedente alla somministrazione del test non abbiano avuto nessun sintomo conseguente al loro impegno, quale dolore o stanchezza, e alle difficoltà che sicuramente avranno incontrato nello svolgimento di attività così faticose. È evidente che questi soggetti negano nel dipingere un quadro di loro stessi che è palesemente “troppo normale”: questo rilievo è in accordo con quanto trovato sui soggetti con malattia neuromuscolare studiati da Vappu. Il meccanismo della negazione potrebbe intervenire anche nell’accettazione delle ortesi in una logica “Non inciampo e non cado, quindi non ho bisogno di ortesi, quindi non sono grave, anzi sono pressoché normale”.

Conclusioni


In questo studio i pazienti CMT non sono apparsi più stressati della popolazione generale nonostante debbano confrontarsi con numerosi problemi fisici e psicosociali nella loro vita quotidiana. Ulteriori studi sono necessari per confermare questi dati, per comprendere meglio i meccanismi di coping elaborati e per risolvere le problematiche ortesico-riabilitative presentate dai pazienti di questo studio.

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(*) Psicologia Clinica, Presidente dell’associazione italiana Charcot – Marie – Tooth Onlus