di Paola Gargiulo (*)
Il costrutto di “stress” è uno tra i più complessi e si pone oggi, in maniera sempre più evidente, fra i problemi sociali più rilevanti, cui va data una tempestiva risposta a livello sia di cura che di prevenzione. Fermo restando che in generale lo stress comporta uno stato di “tensione” (l’etimo deriva dalle prove di laboratorio a cui sono sottoposti i metalli allo scopo di determinare il carico di rottura; in particolare fa riferimento alle prove di trazione, di flessione e di torsione – prove definite di stress), è importante fare una prima distinzione tra le parole stressor e stress propriamente detto:
• Lo stressor è una situazione-stimolo qualsiasi, cioè un qualsiasi evento che ci accade; questo può essere sia positivo che negativo.
• Lo stress (termine inglese che significa “sforzo”) è la risposta generica del nostro organismo allo stimolo stressante.
È importante inoltre comprendere (a partire dalle teorie di Selye fino ai più recenti studi psicofisiologici) come si passi da uno stress di tipo acuto (per il quale l’organismo si mette in condizioni di reagire ad eventi esterni che devono essere affrontati e risolti), ad uno di tipo cronico in cui lo stress permane al di là delle reali esigenze esterne e produce effetti estremamente dannosi di logoramento e di squilibrio dei funzionamenti normalmente fisiologici dell’organismo.
In passato gli studi erano mirati all’individuazione di eventi stressanti maggiori e a studiare le loro conseguenze sulla salute dell’individuo. Recentemente si è invece rivolta l’attenzione anche ai piccoli eventi della vita quotidiana che, se sommati, possono essere di rilevante importanza.
Il tema dello stress come fattore di rischio per la salute è uno dei più popolari in psicologia della salute, al punto che alcuni hanno recentemente affermato che ne costituisce il costrutto centrale. Tuttavia, un’area consistente di questa disciplina si occupa di studiare la malattia come evento critico (cioè come stressor), e le strategie messe in atto dai soggetti per adattarsi a specifiche malattie e disabilità con gradi diversi di gravità e durata.
Le “teorie della crisi” spiegano come le persone affrontano le maggiori transizioni o fasi critiche della loro vita, e vengono utilizzate per esaminare l’impatto di una nuova malattia sull’identità personale e sociale. Il presupposto di queste teorie è che i sistemi psicologici individuali, così come i sistemi biologici, sono finalizzati a mantenere un’omeostasi; in tal modo, le crisi si risolvono poiché l’individuo trova un modo per ritornare alla stabilità e per autoregolare il suo stato psicologico su nuovi standard.
Un altro approccio teorico applicato alla comprensione della gestione della malattia è quello dell’adattamento cognitivo di Taylor e collaboratori i quali, attraverso una serie di interviste a persone malate di cancro, hanno evidenziato che l’adattamento a una malattia è il risultato di tre processi:
– una ricerca di significato (in cui la persona si domanda “Perché è successo proprio a me?”),
– una ricerca di padronanza (in cui la persona si convince che la sua malattia è in qualche modo controllabile) e
– una fase di crescita personale che avviene attraverso un miglioramento dell’autostima e azioni di confronto sociale, tra cui quella del confronto con altri che stanno peggio.
La maggioranza degli studi ha analizzato e classificato le fasi psicologiche che il paziente adulto attraversa dopo essere venuto improvvisamente a conoscenza di essere affetto da una patologia minacciosa per la vita, come il cancro o l’AIDS, o responsabile di grave disabilità, come la sclerosi multipla o la paraplegia post-traumatica. Riguardo alle malattie che esordiscono in età infantile o in adolescenza e che comportano disabilità cronica, la maggior parte dei lavori è stata rivolta a patologie non genetiche, quali la sindrome postpolio e la paralisi cerebrale infantile, o ad affezioni ereditarie gravi e a prognosi infausta come la distrofia muscolare di Duchenne. Invece solo pochissimi studi hanno preso in considerazione le problematiche psicologiche dei pazienti affetti da malattie genetiche non mortali ma responsabili di disabilità progressiva di grado lieve o medio, con esordio nell’infanzia o nell’adolescenza. I pazienti affetti da questo gruppo di patologie differiscono sia dai soggetti sani perché le loro prestazioni motorie sono meno valide e perché sono portatori di un difetto genetico trasmissibile alla prole, sia dai soggetti che la nostra società identifica con il termine disabile o handicappato perché sono di intelligenza normale e possono camminare e compiere le attività della vita quotidiana in maniera autonoma.

Un esempio di tali patologie è la malattia di Charcot-Marie-Tooth (CMT), una neuropatia genetica progressiva che causa indebolimento ed atrofia dei muscoli dei piedi, delle gambe e delle mani, con conseguenti difficoltà nella deambulazione e nella prensione. La CMT non compromette le funzioni cognitive né riduce la durata della vita e, tranne eccezioni, la capacità di deambulare non viene perduta. Tuttavia è stato recentemente dimostrato che la qualità della vita dei pazienti affetti da CMT è ridotta, sia negli aspetti fisici sia, anche se in forma minore, in quelli mentali (vitalità, funzionamento sociale, ruolo emozionale, benessere mentale).
La malattia inizia nella stragrande maggioranza dei casi nella prima o nella seconda decade della vita, per cui, essendo l’organismo in accrescimento, può comportare delle alterazioni dello sviluppo osseo ed articolare dei piedi, delle ginocchia, delle anche e della colonna. Tali deformità, unitamente alla scarsità dei muscoli, possono determinare un’alterazione della propria immagine corporea. Nella CMT le problematiche psicologiche sono correlate con le preoccupazioni per la progressività della malattia e della disabilità, con l’isolamento sociale, con le difficoltà a trovare un lavoro adatto, con le remore circa la procreazione, con le difficoltà a trovare e ad accettare protesi ed ausili.
La CMT è un’affezione che altera la vita in maniera globale in quanto si manifesta in età infantile o in adolescenza, periodi della vita in cui il fanciullo dovrebbe vivere nella completa spensieratezza; altera l’aspetto fisico in una fase della vita (l’adolescenza) in cui ogni difetto, anche minimo, non è tollerato; è una malattia genetica e quindi trasmissibile alla prole e ciò comporta la comparsa di remore circa la procreazione; altera le più importanti funzioni degli arti (la deambulazione e la prensione), con conseguente minore efficienza al lavoro e nelle attività della vita quotidiana; è incurabile e progressiva per cui il futuro può apparire incerto.
Una revisione della letteratura scientifica ha mostrato un’estrema scarsità di studi sulle problematiche psicologiche dei pazienti affetti da malattia di CMT. Arnold (2005), in uno studio finalizzato a determinare il ruolo del counseling genetico, intervistò 14 pazienti statunitensi affetti da CMT, in maggioranza di età superiore ai 50 anni e senza valutazioni oggettive del livello di gravità. I problemi rilevati riguardavano soprattutto l’impatto della diagnosi sui pazienti, l’adattamento e il coping nella CMT, e l’esperienza del consiglio genetico. La maggioranza degli intervistati vivevano con la CMT da molti anni senza che essa fosse stata diagnosticata e si dichiararono sollevati quando trovarono una risposta alla causa della loro debolezza e delle loro limitazioni in quanto, a causa delle loro scarse prestazioni fisiche, essi venivano spesso etichettati come pigri e goffi. Riguardo il secondo punto, molti intervistati dissero che avere la CMT significa vivere con uno stigma associato con l’avere una disabilità. Alcuni di questi problemi furono rilevati anche da Vappu (1991) in un lavoro su 67 pazienti neuromuscolari finlandesi basato sulla compilazione di un questionario redatto mescolando item provenienti da più repertori. L’autore non specifica le patologie dei pazienti valutati ma, essendo la CMT una malattia neuromuscolare, quasi sicuramente lo studio includeva anche soggetti con questa patologia. I risultati di questo studio rivelarono che i soggetti nel gruppo sperimentale erano introversi e tentavano di tenere i loro sentimenti sotto controllo. Erano presenti forme di ansia e bassa autostima. Inoltre, essi erano subordinati, conformisti, attenti e analitici nelle relazioni umane, pieni di risentimento e sospettosi riguardo le altre persone.
Un altro elemento interessante emerso da questo studio è la negazione: era tipico per tutti i tipi di problemi che venissero negati e il quadro che i soggetti con malattia neuromuscolare dipingevano di loro stessi era troppo normale. Secondo Vappu, sulla base di questo studio è giustificato affermare che le persone con malattie neuromuscolari sono spesso esauste sia fisicamente sia psicologicamente.
De Mari (2003) sostiene che uno dei compiti fondamentali del medico dovrebbe consistere nell’aiutare il paziente a gestire lo stress che il prendere coscienza della sua patologia può causargli. Questa presa di coscienza, secondo De Mari, può essere talmente devastante da sfociare in alcuni casi in un disturbo depressivo, che va a sommarsi alla patologia di base. L’acquisire coscienza di avere una patologia cronica non suscettibile di guarigione può essere uno stress talmente grave da essere equiparato a un lutto: il paziente deve essere aiutato ad elaborare il lutto per la sua normalità. Nel caso di una malattia geneticamente trasmissibile e progressiva come la CMT, i lutti sono tre:
– la normalità,
– la stabilizzazione della propria situazione,
– la salute degli eventuali figli.
A conclusione di questa breve rassegna limitata alla CMT, è utile riassumere quanto è stato scritto in passato sulle problematiche psicologiche associate alla disabilità motoria, indipendentemente dalla causa che l’ha determinata. Classicamente si fa una distinzione in base all’età d’esordio, essendo i problemi di coloro che sono disabili dalla nascita o dall’infanzia nettamente differenti da quelli di coloro che lo diventano in età adulta, cioè dopo aver vissuto una parte della loro vita senza la malattia.
Rosemary Shakespeare in “Psicologia dell’handicappato” (1982) sostiene che se la disabilità si manifesta in età infantile, “costringe” il bambino ad inserire nel proprio processo formativo dell’autoconoscenza anche la conoscenza della propria disabilità. Tuttavia, secondo l’autrice, è difficile generalizzare quando ciò avvenga, in quanto non esiste nessuna indicazione in proposito. Di solito il bambino si rende conto di avere un deficit nello stesso momento in cui si accorge che gli altri non lo hanno: per esempio, quando si accorge che gli altri bambini corrono e lui no, oppure quando si rende conto che i suoi movimenti sono sgraziati e, pertanto, diviene oggetto di derisione e discriminazione. In certi casi, la coscienza della disabilità può avvenire in età adolescenziale: la ricerca di un lavoro e le prime esperienze sentimentali sono considerate determinanti per la presa di coscienza della disabilità e dell’atteggiamento degli altri nei confronti della disabilità stessa. Se invece questa si manifesta in età adulta, l’autoconoscenza può subire una improvvisa e totale modificazione, e in caso di disabilità grave, deve essere acquisita una immagine di sé del tutto diversa dalla precedente. Angoscia e depressione possono comparire come reazione alla perdita della precedente personalità e di specifiche capacità. Può esservi anche un assoluto negativismo, che si traduce concretamente nel rifiuto di accettare la propria disabilità. In generale il prendere coscienza delle proprie limitazioni tende ad avvenire con particolare drammaticità in momenti così detti “critici”, vale a dire quei momenti che sono già critici nella evoluzione delle persone sane, e che lo sono anche di più nelle persone con una disabilità:
– l’ingresso a scuola e il conseguente confronto con i coetanei;
– il riuscire a ottenere un appuntamento con una ragazza o un ragazzo;
– il procurarsi un lavoro normale e venire accettato da un datore di lavoro senza la speciale qualifica di invalido; riuscire a staccarsi dal nucleo famigliare e vivere per conto proprio;
– sposarsi e riuscire a mantenere la propria famiglia.
La Shakespeare rileva che il contatto con altre persone può essere un’importante esperienza per la presa di coscienza del proprio handicap, con conseguenze diverse. In generale i bambini tendono a sentirsi rassicurati rendendosi conto che vi sono altri bambini con i loro stessi problemi, e si sentono così meno “soli”. Negli adulti l’effetto può variare: alcuni si sentono rassicurati trovandosi con persone che hanno i loro stessi problemi e con cui possono condividere un certo numero di attività; altri, particolarmente se la loro disabilità è di gravità intermedia, sono depressi e perfino terrorizzati all’idea di dover far parte di un gruppo di disabili, e cercano di evitare di associarsi con il gruppo stesso. Secondo l’autrice infatti, un dilemma di base per la persona disabile è quella del gruppo di appartenenza, cioè, fino a che punto il disabile deve identificarsi con “gli handicappati” e fino a che punto può considerarsi parte della società “normale”.
Il processo di integrazione al gruppo appare chiaramente in rapporto alla gravità dell’handicap: 
gli handicappati gravi subiscono meno frustrazioni, in quanto hanno meno occasioni di dilemmi e di scelte;
i disabili meno gravi invece, situandosi fra la disabilità e la non disabilità, si sentono “ai margini” e da qui nasce la loro insicurezza.
Molti soggetti “marginali” si spingono agli estremi per coprire una disabilità, evitando ogni occasione in cui potrebbe palesarsi; divengono socialmente appartati, evitando i contatti con altre persone, in quanto incapaci di tollerare l’ansia derivante dalla continua incertezza che la loro disabilità si palesi, e che possa non essere accettata.
Altri autori si sono espressi riguardo agli effetti psicologici dell’handicap.
Starrett (1961) pone in evidenza anche nei paraplegici la presenza di difese permanenti quali rifiuto, ostilità e depressione per quanto all’inizio questi pazienti si dimostrano molto ansiosi, temendo la distruzione della loro immagine fisica. Baldaro Verde (1987) tratta in particolare le tematiche relative alla sessualità e le relazioni con il partner del disabile motorio (fisico). L’autore scrive che questi soggetti vivono grandi sentimenti di inferiorità che li conducono ad interiorizzare la convinzione di non essere accettati dagli altri, di essere rifiutati o comunque di non poter raggiungere un rapporto di scambio alla pari. Essi infatti si mettono in relazione sempre secondo la propria mappa cognitiva legata ad insuccessi precedenti e quindi in posizione down, in quanto l’aspetto fisico nella nostra cultura è ritenuto molto importante ai fini di ottenere delle risposte positive. Secondo l’autore, l’handicap è una “ferita sul sé corporeo” e, nel caso in cui sopraggiunge in età adulta, esso rappresenta un ostacolo da deprivazione in quanto il soggetto aveva già acquisito una identità sessuale “certa”. Anche Baldaro Verde si esprime in merito alla necessità per il disabile di un processo riabilitativo globale, il cui principio ispiratore dovrebbe essere, secondo l’autore, porre l’accento non sull’invalidità ma sulla persona e sulle sue capacità e il valorizzare quindi non ciò che manca ma ciò che c’è.
Da quanto sopra esposto appare evidente che l’esistenza di una persona disabile è costellata da difficoltà e sfide che potrebbero determinare uno stato di stress cronico.

La ricerca: lo stress nella malattia di Charcot-Marie-Tooth. Lo scopo principale del presente lavoro fu quello di accertare la presenza di sintomi indicativi di stress in un campione di persone affette da malattia di Charcot-Marie-Tooth ben caratterizzato eziologicamente e clinicamente e rappresentativo della maggioranza della popolazione affetta da questa malattia. Un obiettivo secondario era di conoscere meglio le problematiche che assillano questa tipologia di pazienti onde indirizzare meglio l’intervento riabilitativo. In questo studio furono presi in considerazione 35 pazienti di età compresa tra 16 e 60 anni (età media di 39,9 anni), consecutivamente esaminati presso il Servizio di Consulenza Riabilitativa dell’Associazione Italiana Charcot-Marie-Tooth nel periodo maggio-dicembre 2006. Tutti avevano una diagnosi certa di CMT, essendo già stati sottoposti a visita neurologica e ad accertamenti elettrofisiologici e genetici in ambiente universitario specializzato in patologie del sistema nervoso periferico. All’inizio di questo studio fu stabilito di includere pazienti in grado di sostenere le prove richieste e il più possibile omogenei per quanto riguarda la gravità clinica e le sollecitazioni ambientali, pertanto furono esclusi:
a) i bambini fino a 15 anni di età;
b) i soggetti non in grado di deambulare, sia perché i loro problemi sono diversi da quelli della maggioranza dei cosiddetti CMT, sia perché in Italia la vita sociale e lavorativa delle persone in carrozzina è in genere molto limitata e quindi l’esposizione a stressor ambientali è presumibilmente ridotta;
c) i portatori di una mutazione responsabile di CMT ma ancora asintomatici o esenti persino dalla prima alterazione podalica responsabile di menomazione della deambulazione (caduta dell’avampiede o lieve deficit di dorsiflessione), in quanto essi non si trovano ancora a fronteggiare le difficoltà dei pazienti con malattia manifesta;
d) i pazienti di età superiore a 60 anni, sia poiché la presenza di altre malattie e problematiche tipiche dell’età senile avrebbero potuto impedire la comprensione di quelle tipiche della CMT, sia perché le persone ultrasessantenni sono pensionate e hanno una minore esposizione agli stressor ambientali rispetto alle persone in età lavorativa.
Pertanto i pazienti inclusi in questo studio avevano un’età tra 16 e 60 anni e un livello di gravità clinica compreso tra il 1° e il 5° della classificazione funzionale in 7 stadi proposta da Vinci: ciò implica che tutti erano in grado di deambulare autonomamente, sebbene alcuni di loro necessitassero di un dispositivo ortesico tipo molla di Codivilla o di plantari o di adattamenti alle calzature. La durata della malattia, cioè il tempo trascorso dalla comparsa dei primi disturbi riferibili a CMT fino al giorno della visita, era compreso, in base a quanto riferito dai pazienti, tra gli 8 e i 50 anni, con una media di 26,3. Il 34,3% dei pazienti aveva figli. Riguardo l’attività lavorativa, una paziente era studentessa, 9 pazienti (25,7%) non lavoravano, 7 pazienti ( 20%) svolgevano un lavoro autonomo, 11 pazienti (31,4%) svolgevano un lavoro a orario pieno ma di tipo impiegatizio e 7 (20%) svolgevano un lavoro a orario o mansioni ridotte.
Metodi
Il principale strumento utilizzato fu il Symptom Questionnaire (SQ) di Kellner in versione italiana, edito dalle Organizzazioni Speciali, costituito da item con risposta dicotomica sì/no, vero/falso. Ai pazienti fu chiesto di prendere in considerazione lo stato psicologico dei 7 giorni precedenti, sia per comprendere un periodo abbastanza ampio, sia per evitare il riferimento ad un evento non ordinario come il viaggio da casa all’ambulatorio che, per alcuni persone provenienti da lontano, poteva essere piuttosto stressante. Quindi, fu effettuata una breve intervista guidata per investigare sulle problematiche che eventualmente il paziente affrontava nella sua vita quotidiana. L’elenco di domande fu redatto da un gruppo di lavoro ad hoc composto da persone affette da CMT, tra cui un fisiatra e uno psicologo, e comprendeva le situazioni e le sensazioni che, in base alla loro esperienza personale, comportano disagio o stress. Come controlli furono utilizzati 35 soggetti non affetti da CMT, della stessa età e sesso dei pazienti, presi a caso nella popolazione generale.
Risultati
Non furono rilevate differenze statisticamente significative tra i soggetti esaminati e il gruppo di controllo in nessuna delle quattro scale dell’SQ. Neppure furono trovate differenze statisticamente significative tra i soggetti malati e quelli sani raggruppati per sesso e in base all’età. Dalla visita fisiatrica risultò che:
– 5 pazienti erano allo stadio 1;
– 8 allo stadio 2;
– 5 allo stadio 3;
– 13 allo stadio 4;
– 4 allo stadio 5.
Riguardo alle ortesi, il fisiatra rilevò che, sebbene esse fossero state già prescritte a 22 pazienti che si trovavano agli stadi 3, 4 e 5, esse erano utilizzate solo da 7 persone (31,8%). Dall’intervista è emerso che i pazienti si trovano cronicamente ad affrontare le seguenti problematiche:
1. necessità di porre molta attenzione in attività della vita quotidiana che normalmente vengono effettuate in maniera automatica o semi-automatica o comunque con poco impegno attentivo: cammino su terreno liscio (45,7%), cammino su terreno sconnesso (97,1%), cammino tra la folla (80%), cammino in ambiente poco illuminato (88,6%), scale senza corrimano (il 100% delle persone che hanno dichiarato di essere in grado di effettuare tale attività, cioè 15 soggetti);
2. limitazioni quantitative delle normali attività della vita quotidiana per evitare la comparsa di dolore, di stanchezza e di ulcerazioni ai piedi, come avviene nella deambulazione (74,3%), per prevenire la comparsa di crampi e di debolezza da sovraffaticamento, come avviene nella attività manuali, tipo scrivere, usare il computer, cucinare (57,2%);
3. comportamenti coercitivi in conseguenza della necessità di prevenire conseguenze dannose (rinunce, dolori, cadute, disagio, trasmissione della malattia) per l’individuo stesso o per gli altri: ricerca del parcheggio più vicino possibile al luogo da raggiungere (71,4%), ricerca di accessi privi di barriere architettoniche (31,4%), evitamento della procreazione (60,6%);
4. deficit nella funzionalità delle mani, per cui gli oggetti cadono facilmente a terra (65,7%) e molte attività sono ostacolate (80%): ciò avviene più frequentemente in inverno quando le basse temperature provocano una paresi funzionale nell’85,7% dei pazienti;
5. frequente presenza di dolore, sia nella forma di bruciore e formicolio (37,1%), sia come segno di sofferenza articolare agli arti inferiori e alla colonna (68,5%), sia in conseguenza delle ortesi (85,7% dei 7 pazienti che le utilizzavano);
6. imbarazzo, quando la gente volge lo sguardo agli arti inferiori claudicanti o alle mani atrofiche (65,7%), quando vengono rivolte domande riguardo la causa della propria menomazione (42,9%), e disagio quando gli altri non si accorgono di essere in presenza di una persona con limitazioni (ad esempio alla cassa del supermercato nel maneggiare gli spiccioli) e si aspettano un comportamento uguale alle persone sane (54,3%);
7. rapporto negativo con il proprio corpo (85,7% dei pazienti riferisce dispiacere nell’osservare i propri piedi) e con le ortesi anti-equino (tutti e 7 i pazienti che le usavano hanno affermato di odiarle mentre gli altri 15 hanno dichiarato che “non volevano” ancora metterle;
8. alterazione del rapporto di coppia attribuibile alla CMT in una minima percentuale (18,7%): questo dato però potrebbe essere sottostimato in quanto è imbarazzante per il paziente confessare apertamente problematiche private.
Discussione
Questo studio fu condotto su 35 persone in età lavorativa, affette da CMT demielinizzante o assonale, che si rivolgono al medico riabilitatore per problemi di deambulazione e di prensione. Queste persone asserivano di avere, a causa della CMT, numerose difficoltà nella loro vita quotidiana, da quelle direttamente derivanti dalle menomazioni funzionali degli arti inferiori e superiori, a quelle psicologiche conseguenti al fatto di essere portatori di una patologia genetica progressiva.
Sebbene da una popolazione di pazienti con tali caratteristiche ci si aspettasse un livello di stress maggiore rispetto ai soggetti sani, il test psicometrico loro somministrato non rivelò differenze statisticamente significative rispetto alla popolazione generale di pari età e sesso. Questi risultati sono abbastanza sorprendenti e meritano delle riflessioni. 
Innanzitutto va rilevato che la maggioranza dei pazienti esaminati non conduce una vita uguale a quella del gruppo di controllo: molti pazienti non hanno figli e quindi non devono provvedere ai numerosi e faticosi compiti imposti dall’essere genitori, quasi tutti hanno riduzioni d’orario o svolgono mansioni poco faticose al lavoro, alcuni non lavorano affatto e beneficiano di pensione d’invalidità. D’altra parte reperire un gruppo di controllo in maniera casuale con tutte le caratteristiche dei soggetti affetti non era possibile, in quanto le persone sane di età tra 16 e 60 anni lavorano ed allevano figli. Andarli a cercare di proposito significherebbe selezionare un altro gruppo patologico.
Dopodiché va considerato che i pazienti esaminati hanno la CMT da molto tempo (range 8-50 anni, media 26,3) e quindi hanno imparato a convivere con le difficoltà della vita quotidiana senza lasciarsi coinvolgere troppo in campo emotivo e quindi evitando la comparsa di stress. Essi sanno che alcune attività, come chiudere una cerniera o salire le scale senza corrimano, sono difficoltose ad effettuarsi e costano fatica, sanno che è inutile inquietarsi se d’inverno le chiavi cadono dalle mani e ci vuole tempo per aprire il portone di casa, come pure sanno bene che, se si cammina in maniera strana, la gente fissa lo sguardo ai piedi e che, entrando in un negozio, il gestore si allarma perché pensa di essere di fronte a una persona ubriaca. La maggioranza dei pazienti ha iniziato a camminare male nell’infanzia o nell’adolescenza e quindi si è abituata alle reazioni della gente e agli ostacoli della vita sociale, per cui non si turba più di tanto. Oltre a non lasciarsi coinvolgere emotivamente, i pazienti con CMT possono aver appreso come evitare il manifestarsi di problemi durante la vita quotidiana: camminando poco e parcheggiando più vicino possibile al luogo da raggiungere, scegliendo un lavoro poco faticoso oppure accettando un lavoro con orario ridotto o con mansioni sedentarie, si evita la comparsa di fatica e dolore, quindi si evitano possibili stressor.
Come esempio riportiamo il caso di un paziente che alcuni anni prima lamentava stanchezza cronica e dolori muscolari diffusi accompagnati da ansia libera e somatizzata. Questi fu informato che i suoi problemi erano dovuti all’eccessivo impegno fisico derivante dal lavoro dipendente come legale di una multinazionale. Il paziente lasciò l’impiego e intraprese la libera professione, in cui poteva decidere autonomamente quando e quanto lavorare, con progressiva riduzione dei disturbi e, al nostro test, con un punteggio del tutto normale. Dei nostri pazienti solo uno svolgeva un lavoro dipendente senza alcuna facilitazione d’orario o di carico di lavoro. La sua attività di magazziniere si svolgeva in ambiente non riscaldato e comportava il continuo alzarsi, sedersi e camminare per 10 ore al giorno e sotto la pressione dei clienti, nonché scrivere calcando e manipolare oggetti. Al test SQ egli presentava livelli molto elevati di ansia e sintomi somatici. Recentemente il paziente ci ha informati di aver ottenuto il pensionamento per invalidità e di sentirsi molto meglio. Anche il fatto di non avere figli, fenomeno presente nel 65,7% dei nostri pazienti, è la conseguenza di un adattamento per evitamento:
a) del dovere di procreare figli sani, perché comporterebbe problemi di natura morale e impegno fisico connessi con l’effettuazione della diagnosi prenatale e dell’aborto eugenico;
b) del ruolo di genitori, perché il genitore affetto da CMT avrebbe difficoltà fisiche ad allevare dei bambini, sani o malati che siano.
Da questo studio emerge un dato molto importante per i riabilitatori: solo il 31,8% dei 22 pazienti cui era stata precedentemente prescritta un’ortesi anti-equino la utilizzava. Questo studio non chiarisce se la scarsa accettazione delle ortesi dipende dal dolore ad esse associato o da motivi psicologici, ma è probabile che prevalga questo secondo meccanismo, come già suggerito da altri autori. Verosimilmente il mancato utilizzo delle ortesi è connesso con il meccanismo di adattamento per evitamento: non utilizzando le ortesi, il paziente non solo evita l’impatto psicologico di un dispositivo che supplisce ad una funzione perché non si è più in grado di effettuarla con le proprie forze, ma evita anche tutte quelle situazioni potenzialmente stressanti connesse con il miglioramento della deambulazione e il sembrare normali.
Un altro meccanismo che potrebbe spiegare i risultati del Symptom Questionnaire è la negazione, per cui i sintomi di patologia o anormalità vengono inconsciamente o consciamente negati al fine di apparire normali a tutti i costi. In alcuni casi la negazione appare persino troppo evidente: due pazienti svolgono lavori manuali (elettricista e idraulico) pur avendo una grave compromissione muscolare delle mani ed è inverosimile che nella settimana precedente alla somministrazione del test non abbiano avuto nessun sintomo conseguente al loro impegno, quale dolore o stanchezza, e alle difficoltà che sicuramente avranno incontrato nello svolgimento di attività così faticose. È evidente che questi soggetti negano nel dipingere un quadro di loro stessi che è palesemente “troppo normale”: questo rilievo è in accordo con quanto trovato sui soggetti con malattia neuromuscolare studiati da Vappu. Il meccanismo della negazione potrebbe intervenire anche nell’accettazione delle ortesi in una logica “Non inciampo e non cado, quindi non ho bisogno di ortesi, quindi non sono grave, anzi sono pressoché normale”.
Conclusioni
In questo studio i pazienti CMT non sono apparsi più stressati della popolazione generale nonostante debbano confrontarsi con numerosi problemi fisici e psicosociali nella loro vita quotidiana. Ulteriori studi sono necessari per confermare questi dati, per comprendere meglio i meccanismi di coping elaborati e per risolvere le problematiche ortesico-riabilitative presentate dai pazienti di questo studio.
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(*) Psicologia Clinica, Presidente dell’associazione italiana Charcot – Marie – Tooth Onlus